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In faccia al destino

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Negli occhi e nei modi d'Eugenia io notavo invece il dubbio che mi facessi forza a stento.

Talvolta il cuore intende meglio dell'ingegno.

Al consueto luogo, nel giardino, colsi una di quelle occhiate per dirle:

– Claudio ha ragione: sto meglio. Quest'aria fa bene non solo a voi; ed ero forse più esaurito, più debole di voi, io!

Eugenia scosse il capo, e arrossendo lievemente:

– Voi – disse – non siete debole. Ora vi dominate per non affliggerci.

– Perchè pensate così? – domandai io con impeto. – Che cosa pensate, che cosa avete pensato di me? Voglio saperlo! Non temete di svelarmi tutto il vostro pensiero, se davvero credete che io non sia debole… Vi prometto che non torneremo mai più su quest'argomento.

– Dirvi quel che penso? quel che ho pensato di voi? Ecco: i primi giorni ch'eravate qua dubitavo soffriste per una passione.

– Una passione d'amore? – feci ridendo.

– Sì – rispose senza ridere. – Non ci sarebbe stato da meravigliarsene; nulla di strano. Ma presto capii che il vostro male era molto più grave.

– Perchè?

– Una passione… – esitava; indi risoluta: – forse me l'avreste confidata o, almeno, non avreste tentato di nasconderla così, a noi, a me. Il vostro male doveva essere molto più grande, perchè avevate timore che io e Claudio ce ne accorgessimo…; eppure non potevate nasconderlo. Non eravate più quello d'una volta. Perchè? Da prima ero un po' curiosa, lo confesso; ma l'altra sera, quando vi costrinsi io a svelarvi un poco, indovinai, e avrei voluto non indovinare.

– Come? Che cosa indovinaste?

– Ricordavo con che entusiasmo mi parlavate una volta dei vostri studii. Io sono una povera donna; non so nulla. Ma quante volte mi dissi: «E se non fosse possibile arrivare dove Sivori vuole?» Comprendevo le fatiche che doveva costarvi il vostro ideale; comprendevo che voi non avevate nulla, non volevate nulla fuori di quello. Tutta la vostra vita era là. Mi dicevo: «Sivori non vuole ammogliarsi… Come vive? perchè vive? Per i suoi studii. Non ha altro bene al mondo. Ma: e se per una causa qualunque perdesse la sua fede?..»

– Avete indovinato! – esclamai stringendomi il capo tra le mani e coprendomi la faccia con le palme.

Perplessa, col timore d'avermi fatto troppo male a vedermi in quel modo, essa ristette un poco. Poi riprese:

– Debbo dirvi tutto. Avere un ideale come il vostro e perderlo, deve essere un dolore immenso, una sventura immensa! Ma voi avete resistito. Avete sostenuto una lotta terribile, è vero?; ma avete resistito! Vedete dunque che siete forte. E siete ancora giovane. Perchè non volete persuadervi che potete avere altri affetti, altre consolazioni, forse un'altra fede?

– No! Quando si è perduta, la fede non si riacquista più; e io ho perduta la fede più bella, la fede di me, del mio ingegno, del mio cuore In chi credere? in che cosa? L'altra sera vi dissi: «temo che la mente mi abbia divorato il cuore»; poco fa vi ho detto; «sto meglio», e infatti il mio cuore non è più di pietra. Ma adesso mi domando: «Non è forse peggio? Soffrire senza affetti, senza speranze, senza uno scopo, non è forse peggio che non sentir nulla?»

Eugenia avrebbe voluto parlare ancora. La trattennero dei passi che venivano alla nostra volta; e tacque, pensosa. Confrontava la mia miseria alla miseria di chi per vivere non chiede che un tozzo di pane? o alla squallida miseria d'un uomo roso da un morbo insanabile?

– Una sorella… – mormorò in fretta, seguendo il corso del suo pensiero mentre Ortensia veniva a noi. – Perchè Dio non vi ha dato una sorella?

Ancora il sentimento le aveva detto il solo bene che avrebbe impedito o mitigato il mio male. Per risponderle, il mio cuore palpitò. Ma Ortensia, senza badare a noi, a voce alta e lieta, riferiva non so che ambasciata, o notizia.

– Cervellina! – le disse la madre in tono di soave rimprovero, rialzandole i capelli su la fronte. – Cervellina!

La ragazza si rivolse, passò dietro la madre per trarne a posto il cuscino su cui poggiava le spalle, e mi guardò; e accortasi che quella sua gaiezza era giunta inopportuna, attese, incerta, con le braccia allo schienale della poltrona.

Senza badare a lei, io dissi a Eugenia:

– Sì; ho pensato spesso di che benefizio mi sarebbe stata e mi sarebbe una sorella. La sorella è la custode della bontà materna; è la immagine materna che sopravvive.

La signora annuiva. Ma io mi corressi:

– Forse esagero, perchè attribuisco a questo bene, che mi manca e che comprendo, anche la parte pura del sentimento che nessuna donna esaurì pienamente dal mio cuore. Sono certo però che quest'affetto può bastare a sè stesso; gli basta, per sussistere, nutrirsi di sè stesso; e ciò lo rende superiore forse a ogni altro.

Eugenia disse:

– Infatti quante mogli non buone sono sorelle buone.

Io proseguii concitato.

– Oh l'affetto che nessuna colpa contamina, che nessuna volontà o finzione o profitto dirige, e che si esprime spontaneo, placido, continuo, in prove d'abnegazione, nella voluttà del sacrifizio! Disperato, solo, io mi son visto in un'interminabile via, irta di triboli. Tutti i beni a cui feci rinuncia eran perduti, e la vetta a cui tendevo era sparita. Sarei caduto se avessi avuto le parole che son balsamo allo strazio? le stesse parole che avrebbe avute per me mia madre? Maledirei così il mio pensiero se io vedessi negli occhi di una sorella le lagrime stesse che piangerebbe, a udirmi, mia madre? Maledirei la vita se sentissi un cuore fraterno partecipare del mio cuore? Ma – conchiusi, triste: – una sorella non si trova!

Eugenia taceva, triste. Senza guardarmi, essa rigirava gli anelli nelle dita, considerandole, pareva, come bianche.

Mi guardava intanto, fisa, stupita, Ortensia; quasi quella mia disperazione fosse una rivelazione per lei…

Ed io le vidi l'anima negli occhi, come un'altra volta le avevo veduta…

Fu un attimo. In un attimo ebbi io pure l'impressione d'una rivelazione improvvisa, d'una gioia ineffabile, d'un sollievo insperato e certo al mio lungo soffrire. Due anime, in quell'istante, s'intesero. E Ortensia sorrideva d'un sorriso trepido, quale il suo sguardo…

Un attimo: le nostre anime ricaddero in noi. Ma l'affettuoso patto era già conchiuso.

VIII

– Vuoi esser tu la mia sorella?

– Sì.

– Per tutta la vita?

– Sì! – rispose Ortensia con maggior fermezza.

Mi porgeva, a conferma, la mano. Ma credè non bastasse:

– Sarò buona. Vedrà! Glielo prometto!

A me parve più bella; e mi sovvenne del birocciaio che avevo visto, stanco ed assetato, gettarsi alla sorgiva, innondare di ristoro il petto e riprender l'erta con vigore nuovo. Un benefizio consimile ma più grande, più grande io avrei dal consentimento di Ortensia; e questo non era, no, un'allucinazione, un'aberrazione, una puerilità di mente immiserita e di animo appena ridesto in un rinnovamento precario e ingannevole. No! Non speravo una guida al lume della fede e del vero; non supponevo nemmeno un ritorno alla fiducia in me stesso; ma dalla corrispondenza di un semplice affetto, di un bene umano, mi attendevo ciò che nessuna altra cosa avrebbe potuto darmi: ricupererei pienamente il senso della vita; il mio pensiero si purificherebbe nel pensiero di Ortensia; il mio cuore tornerebbe vigile e buono; l'anima triste si allieterebbe dell'anima lieta. Attendevo, volevo il ristoro di quella inconsapevole dolcezza, di quella spontanea vivacità, di quella ingenuità forse non più ignara del male, ma su cui la conoscenza del male passava come ombra che non agita e non intorbida…

Qua, sorellina, che ti riveda! Riluce ne' tuoi occhi la poesia che un'eterna forza di giovinezza esprime in mille modi, in vite innumerevoli d'intorno a te: i sogni, i tuoi sogni, ti accompagnano a volo, t'avvolgono il capo biondo e tolgono ogni nube alla tua fronte. Li scorgi? Guarda: ti si specchiano dinanzi nella realtà… Qua che ti riveda nella veste più umile: la gonna bleuastra, il corpettino chiaro con la fascia di seta bianca, e i fiori al petto, mentre con mano impaziente rialzi i capelli sulla fronte e sorridi. A vederti, dilegua ogni ricordo di morte. Parla! Le parole sgorgano limpide dalla tua bocca e cadono con soavità lunga…

– Che uomo! Sempre triste! Su, signor dottore! A raccoglier dei fiori; presto! andiamo!

Va; e che le spine non pungano le tue mani divinamente belle!..

… Il dolore risparmierebbe quell'anima? Già questo io mi chiedevo. Non era dunque un affetto egoista, il mio, se già mi facevo questa domanda; e un'affezione disinteressata mi pareva tuttavia utile al mondo: per Ortensia non sarebbe inutile avere in me un bene fraterno, quand'anche la fatalità della sventura le fosse indulgente.

Ma io che difendevo Ortensia, io che la conoscevo meglio di tutti, scorgevo meglio di tutti i pericoli dell'indole sua. «Cervellina» la diceva la madre; nè la queta e mansueta Marcella, che troppe volte doveva attender da sola alle faccende domestiche, aveva tutti i torti a lamentar frequenti strappi ai diritti della primogenitura e a chiamarla svogliata. E le altre?

La signora Redegonda – la madre di Guido – chiudeva un occhio, ridendo senza volere, allorchè giudicava Ortensia. – Buona sì; ma non le piaceva star in cucina; non una donnina da casa come Marcella.

E la Fulgosi s'eccitava e agitava a vantar l'educazione inglese, che concede molta libertà alle ragazze, e biasimava Ortensia appunto perchè godendo tanta libertà non era seria come le ragazze inglesi.

Peggio poi la vecchia Melvi. Diceva che Ortensia era «una farfalla, leggera leggera». Lei, la madre di Anna, diceva così, in tono di rimprovero! E pensare che sua figlia, anche quando scherzava chiassosa e pareva abbandonata alla più innocente gaiezza, non diceva parola, non faceva atto che non ubbidisse a un'intenzione o a un'abitudine acquistata per intenzione! Ma Anna non era riprovevole perchè era falsa.

 

Ortensia invece era spontanea in tutto; schietta e franca anche nei difetti: presto o tardi n'avrebbe danno; l'ammettevo io pure. A diciassette anni, era ancor troppo mutevole e impetuosa: non potevo negarlo. Troppo la sua volontà cedeva alle facoltà spirituali, che nè gli ammonimenti materni nè il nativo buon senso bastavano a disciplinare; era irriflessiva spesso; troppo fiduciosa di sè e degli altri; impaziente… Concedevo tutto questo. Ma Eugenia notava: – Quando Ortensia ha detto no, è no! Per fortuna – aggiungeva – , a saperla prendere è facile prevenire il no e ottenere il sì.

Dunque Ortensia aveva forza d'animo. Me lo confermavano alcuni ricordi.

Anni innanzi, quando era sui dodici anni, Ortensia s'impauriva ancora ad andar sola, di sera, nell'oscurità. Una sera il padre la derise, per questo, più del solito. Improvvisamente lei s'alzò da tavola; traversò tutta la casa al buio; e tornò pallida, ma vittoriosa.

E da bambina respingeva ogni tentazione di dolci e di frutta che le venivan offerti a patto di rivelare chi delle sue compagne di scuola avesse commesso qualche marachella. Golosa, mangiava quelle buone cose con gli occhi, ma non c'era modo di farla parlare. Ed ora perchè sembrava più ardita e più consapevole di sè, quando, sul serio o per gioco, esclamava d'impeto: – Voglio! – ?

Allorchè tant'anima si raccoglierebbe nell'amore o nel dolore, che forza di volontà avrebbe al suo soffrire! Era figlia di Claudio Moser, il quale tutto doveva a una volontà ferrea. Come pure aveva del padre la focosa cordialità, che manifestava spesso puerilmente.

– Tesoro! – quanti erre nell'esclamazione, mentre quasi soffocava il gatto con le carezze. Io le dicevo:

– Una volta o l'altra ti graffia. Sei troppo fidente: credi buoni sino i gatti!

– Ma non vede com'è bello?

E il vitellino alla cascina? Era un lattonzolo fulvo e ispido, che ne ascoltava le più affettuose espressioni con i grandi occhi stupiti e immoti e le gambe anteriori tese e aperte a un imminente sbalzo, se non di riconoscenza, di pazza gioia. Espressioni per il vitellino da fare invidia a un innamorato! Quanto a Sansone, il vecchio e bianco cavallo di Moser, lo abbracciava mentre esso le posava il capo su la spalla e tritava lo zucchero; ed erano abbracci così furiosi che per miracolo quello non se ne liberava con una zampata.

Con tali indizi d'indole affettuosa andavan altri che davano a conoscere non men vive le facoltà spirituali.

– Dopo che la mamma è guarita non provo più nessun bisogno di pregare. Come sarà? Certo non va bene!

Questo era effetto della giovinezza ritornata del tutto lieta; ma chiedeva a me:

– E lei non prova mai il bisogno di pregare? Mai?..

Io sorridevo, tacendo.

– È orribile! – Ortensia esclamava allora, dolente in modo da rivelare uno spirito passionale e profondo.

Che sarebbe di quest'anima all'uso della vita? Tenace nella passione, a chi s'affiderebbe quest'anima? Scemando l'esuberanza della giovinezza, così impulsiva, che mutamento avverrebbe in lei? Ogni indagine mi pareva una preparazione a difenderla un giorno, e nello stesso tempo accresceva l'intima ragione del mio affetto.

Volli sapere i suoi più grandi desideri.

Alla domanda, dondolandosi a pena a pena nella poltrona ad arco, chinò le palpebre su gli occhi, quasi a raccogliere e a precisare una visione.

– Viaggiare! Viaggiar molto! viaggiar sempre!

– Perchè?

– Oh bella! Per vedere il mondo; altri monti; pianure; città; il mare. Oh il mare!

– Calmo…; a lume di luna… – suggerivo io.

– E in tempesta no? Non l'ho mai visto in tempesta. Dev'essere stupendo!

– Dalla spiaggia…

– … Le onde bianche, il cielo nero, i lampi… Brrr! che bellezza!; ma a non esserci, là in mezzo!

– Brava! E poi?

– Un altro desiderio grande grande? Un bel cavallo roano… Roano o morello? Morello! con una stella bianca nella fronte!; e mi portasse via di galoppo, dove volessi io… S'intende, più giovane e più focoso di Sansone. Sa che è un bel tipo, Sansone? Cascasse il mondo, lui non si turba! Sola io riesco a farlo inquietare un po', quando non gli lascio ingoiar lo zucchero… È buono, Sansone; tanto buono!; ma con lui si va poco lontano!

– E poi? altri desideri?

– Mi lasci pensare…

Invece io la prevenni:

– Gioielli?, toilettes?, feste?, teatri?

– Si sa! Quale è la ragazza che non le desideri, queste cose?

– E poi? – io continuavo. – Diventar moglie d'un gran signore; magari d'un principe?

– Uh!, non mi dispiacerebbe.

– Ma io avrei preferito che tu dicessi: moglie d'un grand'uomo; d'un grande artista…

– Non ci ho mai pensato!

– Ah, dunque pensi a diventar moglie d'un principe?

– O di chi, allora? Di Pieruccio Fulgosi?

Fece una risata così significativa che anche a me parve di veder Pieruccio conficcato nell'alto colletto, smorto, con gli occhi imbambolati e i calzoni rimboccati.

– Sei senza pietà con quel povero ragazzo…

Arrossendo, Ortensia dimandò:

– Troppo sgarbata, è vero?

– Ierisera cosa ti disse quando gli voltasti le spalle?

– Eh! la solita storia!; non sa dir altro.

– Cioè?

– Che sono bella.

– E tu?

– Seccatura! Io non so dirgli altro che seccatura! Se lo merita; bamboccio!

– Però non gli dai torto del tutto quando ti dice che sei bella.

– Per me son tutti belli, fuori che lui! È bello per me anche suo padre!

Un'altra risata; e si levò di scatto per andar a guardarsi a una delle specchiere, che stavano alle pareti opposte della sala, quasi per togliersi un dubbio improvviso.

– Pfu! – fece, mentre ripeteva atti soliti: rialzò i capelli sulla fronte, e interponendo la destra al colletto che le stringeva la gola, tentò allargarlo, irosa, alzando gli occhi: bellissimi per il contrasto luminoso delle pupille e dell'iride col bulbo chiaro, che lo sforzo più distingueva.

– Però – riprese – , gli occhi di Marcella son più belli dei miei. Marcella ha gli occhi della mamma. Non sarebbe meglio fossi bruna io e bionda mia sorella? Tanto, a Guido gli sarebbe piaciuta lo stesso, e io mi piacerei di più a me!

Io dissi, tornando in argomento:

– Via!, consolati; chè gli artisti preferiscon le bionde. Ti daremo in moglie a un poeta.

– No, un poeta no. Non lo voglio!

– Perchè?

– Perchè?.. Perchè?.. non lo so nemmen io il perchè. Un pittore, forse… un maestro di musica, celebre…

– Perchè preferiresti uno di costoro?

– Ma sa che è un bel tipo anche lei? Vuol sapere il perchè di tutto! Perchè? perchè? perchè?..

Mi canzonava. Fu così travolto in riso il resto della mia indagine.

Ortensia rideva di gusto; e se non ne trovava il motivo fuori di sè, lo trovava in sè medesima, quasi per espressione, e sfogo di giovinezza; saltando, magari, e cantando per ridere delle sue mosse e del suo canto; ma non era mai un riso sciocco. E diceva:

– Lasciatemi ridere, ora che la mamma è guarita!

Poi mi piantava lì, dov'ero, per correre a veder la madre.

… Quantunque non protesse star molto in piedi, Eugenia aveva ripreso a dirigere le faccende di casa. Più brevi divennero quindi le nostre conversazioni al rezzo; più lunghi i miei colloqui con Ortensia, la quale adesso ardiva sgridarmi non solo se mi vedesse accigliato e col «sorriso brutto», ma anche se non la ubbidivo e trascuravo certe sue giuste pretese. Per diritto e dovere fraterni mi sgridava se m'impolveravo gli abiti e non attendevo abbastanza alla toilette; e spazzolandomi e riacconciandomi la cravatta, borbottava:

– Oh che uomo! oh che uomo!

IX

Ero certo che l'amore non aveva ancor molestato il cuore di Ortensia e che nessun corteggiatore le dava maggior pensiero di Pieruccio Fulgosi.

La breve dimora a Milano, l'inverno, le aveva consentito la molteplice distrazione d'una grande città, ma le abitudini della famiglia l'avevano sottratta alle occasioni di conversazioni e ridotti, che son propizie agli innamoramenti.

A Valdigorgo non vedevo chi potesse innamorarla.

Quando le Moser passavano in paese – e fuor dei giorni festivi era assai di rado – il giovane ufficiale postale e telegrafico esponeva il capo dall'inferriata dell'ufficio; l'assistente del farmacista correva sulla soglia della bottega; i perdigiorni del caffè interrompevan la partita a carte o a bigliardo.

– Le Moser! le Moser!

Ma tutti costoro, e gli altri non da meno e non da più di essi, restavano come a una visione celeste e tiravan di gran sospiri: il cielo è solo per gli eletti!

Dell'ingegner Roveni io non sospettavo affatto, perchè ero sicuro di questo: nelle poche ore che restava alla villa egli non trattava Ortensia diversamente da Marcella, cioè con confidenza disinvolta e, insieme, un po' rude.

– Un giovane serio! – ripeteva Ortensia. Infatti, nè con lei nè con Marcella scherzava mai come con Anna Melvi; e con la Melvi, la quale lo provocava, scherzava in modo che pareva dire: «Tu cerchi di farmi cascare, ma non ci riuscirai. Sarà brava quella che ci riuscirà!»

E rideva, con Anna, quasi per togliersi di imbarazzo, quasi per forza; in modo che – ridendo egli poco o punto con tutti gli altri – poteva parere un po' volgare. Anche ciò mi confermava nell'opinione che fosse un uomo lontano e libero da preoccupazioni sentimentali; libero fors'anche per misura, forse per calcolo. Ma non poteva passarmi per la mente l'idea che dissimulasse; nè, pensandoci, ci avrei potuto trovare ragione alcuna.

Del resto, Ortensia, per parte sua, col suo carattere, mi persuadeva che quando pur avesse avuto cento adoratori attorno, e uno più esperto dell'altro, sarebbe stata ugualmente lontana dal pericolo di languir di passione. Chi pensa a sè stesso, perchè ama o è in attesa di amare, non ha di quelle impressioni improvvise, di quei rapidi entusiasmi per la vita esterna che aveva lei.

In ciò rassomigliava alla madre quand'era giovane; ma mentre in Eugenia l'ammirazione dei fenomeni naturali era temperata dall'affetto raccolto nel marito e nella famiglia, in Ortensia la stessa ammirazione prorompeva giù spontanea, più vivace, più grande; immediata. Ecco forse perchè all'arte della poesia, che domanda, a comprenderla e a gustarla, studio e riflessione, essa preferiva la pittura e la musica.

Con Ortensia non si facevan molti passi, non si stava un po' fuor di casa, senza udirla ripetere: – Guardi! che bellezza! Stupendo, è vero? – E mi chiamava spesso a voce alta: – Sivori! venga a vedere! corra!

Se non che per godere del tutto la libertà delle sue giornate, Ortensia non avrebbe dovuto aver nulla da fare in casa. E, pur troppo, la vecchia cameriera veniva in cerca di lei con gravi incombenze di Marcella o della madre.

Uf! che pazienza! Di solito scappava in casa di corsa per trarsi d'impaccio al più presto possibile; ma talvolta rispondeva:

– Sì, sì, ho capito! Subito! Vengo subito! – e allora a rivederci, Marcella; o arrivederci, mamma!

Quando poi non poteva esimersi dal cucir qualche cosa, o dal rammendare il bucato, si addossava in un giorno il lavoro di una settimana. In quel giorno di clausura, che manteneva con fermezza eroica, io la vedevo di giù, dal giardino, seder presso una finestra, contro al fondo scuro della camera.

A capo un po' chino, con movimento ritmico, alzava il braccio e tendeva il filo a ogni punto: ne scorgevo ad ogni volta la mano bianca; e come di tratto in tratto elevava il capo a guardar fuori, al cielo, i suoi occhi mi parevano più luminosi e profondi.

Ma ottenere di cotesti miracoli era impossibile per imposizione.

Aveva la ribellione nel sangue; al punto che si ribellava anche a Sivori.

Una mattina ricorsero a me, l'una dopo l'altra, Marcella, la cameriera, Eugenia.

– Sa dove sia Ortensia? – ; dove sia la signorina? – ; dove sia la cervellina?

No, neppur Sivori lo sapeva. L'avrebbe saputo Mino; ma Mino appunto era stato prescelto da lei ad accompagnarla nel bosco, di là dall'antico convento, per raccogliervi bulbi di ciclami.

Senza di me! Quando tornò a casa, la rimproverai con acerbezza; come avesse commessa una colpa grave davvero. Essa però prese i rimproveri allegramente.

– Perchè non ho chiamato lei, invece di Mino? Perchè?.. per farle, dopo, una improvvisata! Non va bene? Una scusa che non va? Allora perchè…: per evitare una sgridata! Raccoglier cipolle di ciclami nel bosco… Orrore! Ma no: neppur questo «perchè» la soddisfa? Ecco dunque la verità: m'è parso un passatempo non da uomo così… burbero!

Quindi a me non rimase da far di meglio che star a vederla a piantar i bulbi nell'aiuola, solo sgridandola che s'interrava le mani, e lodando Mino, il quale, più savio, scavava con un paletto.

 

– Che m'importa delle mani? – ella disse. – Vedrà, vedrà che ciclamini! Io li preferisco a tutti i fiori… E lei? Qual è il fiore che le piace di più? Dica! Voglio saperlo!

E Mino anche lui: – Di' dunque, Sivori!

– Indovinate – risposi, ripensando al tempo che mi piacevano i fiori.

Mino esclamò, pronto:

– Le freddoline!

Ma Ortensia:

– I fiordalisi? Di giugno, quando il frumento è alto e giallo, i papaveri e i fiordalisi, là in mezzo, non son belli forse?

Non era il fiordaliso che io ammiravo di più, un tempo…

– La rosa! – gridò Mino con l'entusiasmo di una scoperta indubitabile.

Via! Ortensia non poteva ammettere che il fiore che più piace a tutti, più piacesse a me.

– La rosa thea?

Dissi:

– Anche le thea hanno le spine…

Con alacre pensiero, cogliendo le immagini più vive che le venivano alla mente, Ortensia proseguì:

– La camelia? È stupida! Il mughetto? Sì, è grazioso… ma poi! I tulipani? l'ireos? No, no, non credo. Il tuberoso? Niente di straordinario! Le viole? Peggio!; le viole mammole le han fatte diventar noiose a scuola, con la storia della modestia; le viole del pensiero io non le posso soffrire! Dopo l'ortensia, la viola del pensiero è il fiore più antipatico per me. Ortensia!: potevano ben mettermi un altro nome!

– Il geranio è bello – disse Mino.

– Sta zitto, tu! L'orchidea?.. – continuava l'altra. – Ma lo dica, una volta! Il garofano?

Assentii.

Mino gridò: – È brutto!

Ma Ortensia riflettè un istante; e poscia:

– È vero; è molto bello il garofano!

Quanti anni eran passati da quando il mondo a me pareva bello anche nei fiori, e il garofano il più bel fiore?

Rividi nella memoria il mio paese nativo, ai dì di festa; mia madre… Era molto bello il garofano rosso; il fiore del popolo: fiore della forza e della libertà; fiore dell'idea e fiore del sangue.

– Prendi! – disse Mino portandomene uno, di corsa.

Ecco… Il calice capace e alto, merlato, ben munito al fondo; i petali copiosi, con quelle brevi frange marginali che sembrano moltiplicarli; il calamo così sottile e lungo, che ai nodi non si piega ma si tronca – frangar non flectar – ; le foglioline del gambo esili ma salde, forti, affilate come lame; e quel colore ardente fra l'umile verde opalino della pianta, e lo sboccio impetuoso fuori dell'intricato cesto, gli danno una apparenza di bellezza audace, di stranezza semplice, di letizia rude, di vigoria nobile e selvaggia.

Al mio paese, tornando dai vesperi, i giovani portano il garofano all'orecchio, quale segno di conquista; e le ragazze non se ne adornano esse, ma li coltivano con gelosia in una pentola crinata, che adorna la finestra della loro camera, e se ne valgono a prove d'amore; tentazioni, sfide, promesse, premi e pegni d'amore.

Ma se ci son fiori che appaiono più belli quando sono sbocciati appena appena, o in prima fioritura, il garofano non è bello che nella virilità. Prima, allorchè gl'innumerevoli petali, vivi e freschi, fanno forza al calice che li costringe a non espandersi e nascondono le antere e i pistilli, come per un pudore di adolescenza, allora è di una timidezza senza grazia, di una robustezza troppo impacciata e quasi stenta. Ma quando è maturo e aperto, quando nella festa della sua vita fende il calice, prorompe con vigore esuberante, e i petali, per la fenditura, in basso, formano un bitorzolo bianco come son bianchi gli organi generativi non più nascosti, e in alto i petali sorgono pieni di colore e di sangue, e quelli esterni si chinano e soggiacciono quasi alla stanchezza di una fatica, grande e gioconda; quando da tutta quell'intima complessione tenera e viva sgorga il profumo intenso che non cesserà nella morte, oh allora è mirabile il fiore del desiderio ardente, dell'amore cupido e della voluttà!

… Ebbene, da quel giorno, spesso Ortensia si mise, insieme, due o tre garofani sul petto; e da quel giorno il garofano perdè ai miei occhi ogni espressione sensuale, e mi parve più bello.

X

– Ho promesso e mantengo! – proclamò l'ingegner Roveni. – Domani si va alle Grotte.

Lo ricompensò un clamore di grida gioiose; e subito le ragazze furono intorno a me per costringermi ad andar con loro.

Anna Melvi urlava:

– Chi fa l'istanza? chi ci è più interessata? – e sospingeva Marcella, timida e ridente in quel suo modo per cui stringeva un po' le ciglia e velava con le palpebre gli occhi soavi.

Inanimita, Marcella pregò:

– Andiamo, Sivori!: sia buono! Se non verrà anche lei, la mamma non ci lascerà andare.

E la Melvi:

– Dovremmo rivolgerci al cavaliere. Francamente, tra i due, preferiamo ancora lei!

Io tacevo con un sorriso incerto.

– Non capite che Sivori non ne ha voglia? – esclamò Ortensia dopo avermi fissato a lungo, in silenzio.

– Si annoierà più a restare in casa – ribattevan le altre.

– No, no! Si vede! È inutile: non-ne-ha-voglia!

Pronunciando in cadenza l'ultima affermazione Ortensia manifestava malcontento e nello stesso tempo minaccia di abbandonarmi alla mia svogliatezza.

Io le dissi:

– A quel che pare, tu sei disposta a andar senza di me. Mi vuoi o non mi vuoi?

Rispose forte e soltanto:

– Sì!

– E io ci verrò!

Il dì dopo andammo dunque noi sette – io, i tre giovani e le tre ragazze – a far colazione alle Grotte.

Se durante quella gita io avessi potuto o saputo conoscere a dentro l'animo d'alcuni della compagnia; se avessi potuto scorgere i motivi reconditi di atti in apparenza quasi involontari e di parole in apparenza leggere; se quel giorno avessi pensato un po' meno a me stesso, quanto dolore sarebbe stato evitato?

Per andare da villa Moser alle Grotte si teneva prima il sentiero che guidava al piccolo oratorio del Crocifisso; ivi si passava per il ponte di legno e si prendeva la strada, la quale or costeggia la destra del fiume, ora se ne allontana; ora aperta, ora chiusa in lembi di bosco o solo ombreggiata da noci e da querce, finchè si arriva all'aspra montagna che la via mulattiera assale fra i castagni frondosi e bistorti.

L'ingegnere s'accompagnò subito a me, ed Anna, chiassosa fin nella veste rossa, fu costretta a correre innanzi con Ortensia e con Pieruccio, la vittima, schiamazzando. Dietro andavano Guido e Marcella nella lor piena felicità. Roveni, fatti pochi passi, respirò ampiamente come chi si solleva dalle spalle un peso enorme e come dicesse: «il mondo è mio», disse:

– Questa giornata di svago mi voleva e me la prendo! Moser è rimasto lui alla fabbrica, oggi; ma senza bisogno: ho predisposto tutto io stanotte.

Era la prima volta che discorrevamo insieme liberamente noi due soli, e colsi l'occasione per dirgli:

– Moser prevede che lei, che gli è così utile, lo abbandonerà.

Senza guardarmi l'ingegnere mormorò:

– Vedremo.

– … Però le dà ragione. Lei può pretendere migliore impiego.

– Davvero? Moser non me ne vorrà male, se mi converrà lasciarlo?

Era grato anche a me, che l'accertavo di no.

Io pensavo intanto: «Ecco un uomo! Abbastanza di sentimento; ma finchè non gliene venga danno». Pensai pure: «Se Ortensia avesse qualche anno di più…» Ma guardando il giovane respinsi subito quel pensiero. «Una moglie a costui sarebbe d'impaccio. Per andar lontano, vuol essere libero. Costui è un uomo!»

Egli proseguiva:

– Certo, Moser non potrà dire che gli do il calcio dell'asino. Avrei potuto andarmene già l'anno scorso. È vero che… Basta! La vita è lotta. Io, dottore, ho lottato sempre dai quindici anni in poi.

Era rimasto orfano giovanetto; a prezzo di stenti e di fatiche aveva compiuti gli studi… Poi ripetè che a Moser egli era tanto affezionato…

Avrei dovuto supporre qualche cosa di dubbio e di segreto nelle sue parole, e in quella reticenza: «È vero che…», per cui si era trattenuto da una confidenza inopportuna?

Non so. Anche ora rivedendo Roveni nella mia memoria qual egli era quel giorno mentre mi camminava accanto – più alto e più robusto di me; energico in tutta la persona che indossava il solito vestito bigio, col cappellone a larga tesa; i grossi baffi arditamente eretti, lo sguardo sicuro come il passo – anche ora mi sembra naturale che allora io soggiacessi alla simpatia di quell'uomo. Notai, sì, ch'egli mi guardava di rado e che tendeva gli occhi innanzi a sè; ma perciò vedevo in lui l'abitudine di chi guarda a un suo scopo, lontano. Notai pure che nella sua fisionomia prevalevano la volontà fredda e l'ambizione; ma la stessa durezza di lineamenti non aveva per me nulla di oscuro.