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In faccia al destino

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– Sivori: non ci siamo più riveduti dopo quanto faceste per noi…

– Non ne parliamo! – risposi io, mentre lo sguardo di Ortensia mi avvolgeva.

– Ma – ribattè Eugenia – noi dobbiamo dirvi anche a voce come vi siamo grati, tutti. – E si volse alla figlia quasi meravigliata del suo silenzio.

– Tutti; per sempre! – Ortensia disse con voce viva e forte.

Gratitudine viva nel cuore per sempre: così disse; così vedevo; ma nei begli occhi non era più l'anima di una volta.

– Non è uno scalone – disse Moser entrando, in fretta come era solito, e precedendomi per la piccola scala.

Appena di sopra entrammo nella camera matrimoniale.

– Il letto, vedi, è un documento storico. Però io ci sto da papa. Anche il comò era massiccio e meschino…

– Quelle, guarda, con le quattro stagioni.

Alludeva alle oleografie appese alle pareti. Dalla finestra si scorgevano, oltre la vigna, filari d'alberi e campi uguali sparsi di case e le torri e le cupole della città. Invece dalla camera di Mino non si scorgeva che un lungo camino a fuso sorgente tra il verde: era quello della fabbrica.

– Mio figlio ogni mattina potrà vedermi andare al lavoro e potrà pensare che lavorare non basta… Via, via! – aggiunse Claudio rivelandomi, se già non me ne fossi avveduto, quant'era sforzata tutta quella vivacità di parole e di umore. – Via!: ecco la camera di Ortensia.

Su la soglia, ristetti; ero trattenuto da un panico segreto e indefinibile.

– Ho fatto quel che ho potuto, per accontentarla.

Il letto in ferro, nuovo: bello il comò…

Una titubanza strana mi aveva trattenuto, quasi da una violazione. A Valdigorgo non ero entrato mai nella sua camera… E mi affacciai anche là alla finestra, che aveva di contro lo squallido lazzeruolo.

Per la strada polverosa transitavano birocce e buoi condotti al macello, che mugghiavano.

… A Valdigorgo la sua finestra vedeva nel giardino le opulenti magnolie, gli abeti snelli dai rami digradanti e copiosi, dalle molli frange ondulanti, e i vividi colori delle aiuole penetravano tutto quel verde: s'apriva la cerchia dei monti a concedere, nella bella conca, frescura di estate e tepore in primavera e in autunno: dal cielo puro, intensamente azzurro, e da oltre quei monti chiamava un'ignota, immensa felicità…

– Ah! Non è la sua camera di una volta! – disse il padre chinando il capo sul petto; abbattuto a un tratto dal pensiero della felicità sognata un tempo per la sua figliola.

– Andiamo! – feci io. Ma nel passare dinanzi al comò guardai alla fotografia che vi stava sorretta da un'umile cornice e il cuore mi palpitò. Era una piccola fotografia di Valdigorgo, e sotto al cristallo aderiva, nel mezzo, una fogliolina di trifoglio… Quella? Quella che avevamo raccolta insieme, un giorno, al fosso delle lavandaie?

Il puerile segno di memoria imperitura indicava forse un'illusione non perita del tutto?

– Andiamo! andiamo! – ripetei vivamente.

Nella loggia c'imbattemmo in Ortensia che usciva dall'altra camera, ove portava la biancheria. Ella ristette con noi alla ringhiera e forse avvertì che io aveva avuta un'impressione gradevole.

– Bisognerà aumentare i vasi del giardino – le dissi – ; mi permetterete, Ortensia, di mandarvi dei garofani della mia massaia.

E Moser:

– Sono straordinari i garofani della Pulicreta; rossi come i bargigli di suo marito!

– Qui la massaia sono io e faremo giardiniera la mamma. Vita nuova! – mormorò Ortensia con sorriso amaro. Mentre il padre entrava nella camera di Mino, ella aggiunse: – Vita di pianura.

– Ma non vita bassa. Anche qui proverete gioie; forse quali non avete provate mai!

Lo sguardo di Ortensia m'interrogò profondamente per interpretare tutto il mio pensiero; poi, come non mi credesse, volse gli occhi altrove. Accanto a me, così, mi pareva bella di fierezza: l'esile ma alta e proporzionata persona aveva la nobiltà del portamento che è dono divino della natura; nè alcun poeta avrebbe potuto desiderare più bella fronte e più bei capelli per far di una strofa una corona.

La fierezza che un tempo era fugace ne' suoi occhi e ne' suoi «voglio», pareva in lei esser divenuta, ora, abituale.

– Dev'esser molto triste la vostra pianura, laggiù!

– Triste – risposi – ; ma d'una tristezza pacata e dolce.

Passava in quel punto il fragore di un treno: ansioso, rapido, forte, violento, e scemava; poi, subito dopo, riprendeva intenso, più veloce, e ancora diminuiva, si perdeva; eppoi ancora, per un istante, un fondo e uguale roteare metallico, e più nulla. Dall'orto venivan voci di donne, invisibili.

– È un'impressione curiosai – disse Ortensia. – Qui, a me, mi sembra di udire la vita come se fosse lontana, lontana, fuori di me… Non so spiegarmi!..

Indugiò prima di aggiungere:

– Mi sembra di udirla da una tomba. Claudio tornava; e Ortensia, chiamata dalla madre, ridiscese.

– Che te ne pare di quella bambina? A vederla così pallida mi strozzerei – disse Moser, in cui era cessato l'impeto di pocanzi. – Ma qui avrà del sole, dell'aria, del verde… Purchè non le dispiacciano questi luoghi! Tu credi che non le dispiaceranno? che tornerà bianca e rossa… come lassù?

– Certo!

– Falle un po' di predica. Voglio vederla correre; sentirla cantare…

Infatti egli mi lasciò ancora solo con lei alla ringhiera, appena essa ebbe riposta nella camera della madre la roba portata di sopra.

– Ortensia – le dissi francamente. – Bisogna dimenticare e riamare la vita!

Esclamò:

– Dimenticare? Ma la mia vita è nei ricordi! Voglio ricordare tutto il bene che ho perduto, tutto il male che ho imparato! Quando non comprendevo nulla, quand'ero una ragazza senza giudizio, godevo di essere così; ora godo d'aver sofferto e di soffrire! Non c'è anche la voluttà del dolore? Io almeno, la provo. Voi, no?

E sorrise diversamente, cercando invano di mitigare quell'acerbezza. Proseguì:

– Sivori adesso mi consiglia una cosa da nulla: amare la vita! Andiamo! ditemi voi come si fa… Che cosa si deve fare per mettere in pratica il vostro consiglio?

– Amare! – risposi. Non avevo trovata altra risposta; e il rossore che mi corse al viso e il tremito della mia voce le dissero quanto io l'amavo ancora.

Mi fissò; vedendo che non s'ingannava chinò gli occhi. Indi riprese:

– Sarà un destino anche questo: che non s'intendano fra loro neppure le persone più affezionate. O la colpa è sol mia? Certe volte non comprendo nemmeno mio padre. Sono cattiva! Non comprendo come mio padre possa scherzare, fingersi allegro. E la fede della mamma, la sua rassegnazione, la sua religione mi fa dispetto, alle volte!.. Dunque sono cattiva! Ma lasciatemi come sono; non mi inasprite di più se non potete comprendere il veleno che ho nel cuore, nel sangue!

– Tu hai sofferto molto – ribattei con fermezza – ; ma il bene che noi ti vogliamo è più grande d'ogni male che hai patito; il nostro affetto ti guarirà!

Mi fissò di nuovo per un istante. Quella mia fermezza le significava, più che speranza, una fede sicura; e la meravigliava, la stupiva.

– Non ci comprendiamo più – mormorò.

– Perchè? – le chiesi con forza.

– Oh Sivori; una spiegazione ci farebbe tanto male!

– È necessaria!

– Non ora! non ora! – ripetè con voce dolente, quasi pregando.

E si mosse.

Scendemmo.

A basso, sul punto di partire, volli che Claudio mi promettesse di venire a Molinella.

– Vi voglio là tutti, un giorno.

– Te lo promettiamo – ripeteva Claudio. – Credi non abbia voglia, io, di far un'improvvisata al Biondo e alla sua signora?

Eugenia sorrideva; per lei, che ci verrebbe, garantiva Mino saltandomi al collo.

E Ortensia mi diè la mano. Fredda!.. Ma nei suoi occhi non era più asprezza; la sua voce fu dolce salutandomi:

– A rivederci, Sivori!

IV

Uscendo al sole dai tuguri ove i malati gemevano o deliravano, mi pareva di gettarmi in un bagno che mi purificasse e ravvivasse d'un tratto. Più: certe volte la vita esterna mi colpiva con tal forza che ricevevo un'impressione quasi dolorosa, quasi di una ferita troppo presto esposta a un calore forte e improvviso.

Comprendevo ora come effetto d'una stessa necessità il fervore che agitava le messi sempre più rigogliose, che moveva i ragazzi e i vitelli a correre e a ruzzare nei prati e la vecchia Rita a cantare con la stessa anima dei passeri affaccendati intorno al tetto della mia casa. Nè io mi ritraevo più da quel fervore, non sfuggivo più a quella necessità; e mi chiedevo quante primavere resterebbero ancora ai miei sensi; e avvertivo in me un egoismo profondo e buono perchè naturale.

Ma abbandonandomi in questo sentivo che gran parte di me stesso mancava ancora a me stesso: sentivo che felicità mi era possibile e che felicità mi rapiva, mi strappava, divisa da me, Ortensia. La sete d'amore in quei momenti mi esasperava. Se allora avessi avuto dinanzi a me Ortensia e mi avesse convinto che essa non mi amerebbe mai più, che io non saprei mai più ridestarla al mio amore… che avrei fatto?

Chi mi aveva condotto ad amarla in tal modo? Lei! Lei mi aveva ridata la vita; per lei rivivevo così! Quale ragione, qual fatto, qual mistero o destino le dava il diritto di ricacciarmi in una miseria peggiore della morte? Perchè ora non ci comprendevamo più? Non comprendeva, Ortensia, la mia passione?

Passione che mi tribolava da tre anni; che costringeva un uomo di ormai quarant'anni a invocar la felicità, a chiamar lei, Ortensia, per nome come un ragazzo innamorato!»

E in quelle tiepide notti di maggio, sotto il cielo stellato e la prima luna… (perchè non era meco?)… io piansi.

Frattanto il Biondo e la Rita, avendo appreso che Moser era a Bologna con la famiglia, non mi davan più tregua. E: – Quando viene dunque a trovarci il signor Claudio? – E: – Verrà con la sposa, con i figlioli? – «E: – Verrà anche la figliuola? Abbiamo tanta voglia di vederla!

 

Scrissi a Claudio che non potevo per allora tornar alla Ca' Rossa; che anzi non vi andrei più se prima non venissero loro a Molinella. Claudio finalmente mi annunciò la gita per il primo giorno che avrebbe un po' di vacanza.

La domenica prossima?

V

La sera di quello stesso giorno che mi consolò la lettera di Moser, il caso (sempre il caso?) mi volle solo spettatore d'un fatto che restò quale orribile episodio di miseria e di sventura nella storia del mio paese. Lo narro perchè io, atterrito un tempo dal pensiero della morte, fin da esso derivai argomento d'esaltare la vita.

Ero tornato a casa da qualche ora e fumavo alla finestra della mia camera. Dalla luna quasi colma pioveva sul mondo una luce di letizia.

Mi giungeva il cricrire copioso e vasto dei grilli e il gracidare delle rane e il canto dei birocciai, dalla via maestra:

 
Guarda la bella notte e il bel sereno!
Quest'è una notte da rubar le donne:
Chi ruba donne non si chiama ladro;
Si chiama giovinotto innamorato…;
 

ma al di sopra e al di là di quelle voci era l'immenso sensibile silenzio della notte feconda, quando la natura raccoglie e rinfranca in segreto le sue molteplici forze e si prepara alle più rigogliose espansioni.

Improvvisamente, da sotto la finestra, il Biondo mi chiamò:

– Signor dottore!

– Che volete?

– C'è qui giù la Tisa dello Zingaro, che ha suo marito che sta male.

Bisognò discendere. E venne innanzi l'ombra della donna. Aveva due bambini, uno a destra e l'altro a sinistra; entrambi divoravano il pane che loro aveva dato il Biondo. Il più grandicello, trattenendosi, porse il crostino alla madre e con un accento di meraviglia più che di gioia, esclamò:

– Mamma, del pane!

Non sapeva credere che mangiava proprio del pane.

Senza badargli la donna, timida, mi rispondeva che suo marito aveva una gran febbre e pareva diventato matto.

Al solito: era tifo. Scrissi una ricetta e la consegnai al Biondo; poi dissi: – Andiamo!

Lo Zingaro, così soprannominato per il colore del viso e per la miseria, era un risaiolo che abitava in una lurida capanna presso il serbatoio della risaia.

A quella volta, io andavo innanzi, con la donna dietro: sola; i bambini affamati e assonnati li aveva lasciati al Biondo e alla Rita.

La donna raccontava:

– Tornò l'altra sera dal Traghetto…

– Cos'era andato a farvi?

– In prestito, signore, di un poco di farina gialla. Non avevamo più niente da mangiare; e qui nessuno ci fa credito, signore.

– Avrà bevuto dell'acqua laggiù… Non lo sapete che è l'acqua che avvelena?

Forse la donna aveva tale speranza nel mio aiuto da esserne rianimata; o forse era in uno stato d'orgasmo, perchè mi rispose ridendo:

– Eh! lo credo anch'io che sarebbe meglio ber del vino!

Continuò:

– Quando fu a casa, e io facevo la polenta, cominciò a lamentarsi dal freddo, che per quanto fuoco mi facessi non si poteva riscaldare; e si mise a letto. In tutto ieri non volle mangiare. Ma questa sera mi sono preso paura; fa dei discorsi da matto.

Dopo ch'ella tacque, le chiesi se aveva solo quei due, figlioli.

– Ah! ne ho un altro di cinque mesi. L'ho lasciato a casa per far più presto. Dormiva.

Andavano frettolosi; io ero incitato dalla donna che mi veniva dietro, quantunque ella tacesse e camminasse scalza. E volgevo il pensiero al disgraziato in preda alla febbre.

Se moriva, la poveretta era condannata all'elemosina. Ma la mia mente non poteva insistere in quella tristezza; invano il sentiero era oscurato ad ogni tratto dai pioppi, dalle acacie e dai giunchi: trapassando i rami e le fronde la luna, di là, pareva più fulgida, e nel chiarore diffuso sopra e intorno a me fluiva quella pacata letizia, l'illusione di una felicità tranquilla e uguale, per sempre.

Ortensia! Ortensia!

… Finchè tornai a riflettere, quasi rimorso, all'ufficio che dovevo compiere; e solo allora pensai che poteva essermi necessario un lenzuolo, per un impacco.

Chiesi alla donna:

– Un lenzuolo l'avete?

– Oh, signore! Dove vuol che l'abbiamo un lenzuolo? Sono tre anni che non ne ho più uno!

Io stavo per dirle:

– Tornate indietro a prenderlo, a casa mia, quando la donna fece:

– Cos'è là? – Tendeva la mano.

Un bagliore: dietro i pioppi che separavano il campo dalla risaia. Un bagliore d'incendio.

Che cosa poteva essere? Che cosa bruciava? Non era stagione da bruciar stoppie o rovi nei campi. Una cascina? una casa? Ma non ce n'erano da quella parte, non ce n'erano così vicine!.. Il «capanno»… dello Zingaro?

– Brucia il capanno! – urlò la donna urtandomi, precedendomi, correndo… Una furia; e gridava, forsennata, il nome del marito; invocava Dio, invocava aiuto. Le sue strida di «aiuto» trafiggevano quel silenzio atroce, quella serenità divenuta subitamente spaventosa.

Era vero: bruciava il capanno!

Muto, con lo sguardo teso al bagliore e alla distanza da superare, correvo io pure, e nell'approssimare mi pareva di scorgere l'ombra dell'uomo in delirio che agitasse le vampe dentro un cumulo denso e fondo. Era in salvo, l'infermo? O… bruciava anche lui? Correvamo. E… – il sangue mi si gelò nelle vene – : non mi aveva detto quella sciagurata che aveva lasciato a casa il figliolo più piccolo? «Dormiva».

Infatti chiamando aiuto, chiamando il marito quasi potesse udirla, essa teneva come sospese quelle terribili grida su di un grido che non osava gettare… Oh tutto ciò straziava il cuore; gravava, enorme peso, sul capo!.. Correvamo, correvamo.

Vicini, ormai: la donna tacque. Ad ogni nostro passo innanzi l'incendio, così luminoso di lontano, affoscava; le lame rossastre tagliavano la fumana prorompendo dalla piccola finestra, dalla porta, alzandosi sul culmine.

Era un soffoco di fumo greve, un tanfo di canne abbruciacchiate. E non una voce…; nessuno! Morti?.. Fossero almeno morti, prima… d'asfissia!

Ah no!

Dio! Dio!.. no; un vagito! là! Dinanzi all'uscio, era; in un involto di cenci! Là era il bambino! Lo raccolse, la madre; riebbe la voce: un grido di gioia sovrumana: – El mi ragazzól! – mentre là dentro… Nessuna altra voce!; muto, anche l'incendio.

D'impeto, senza coscienza del pericolo, avanzai alla porticella: ma fui respinto dal fumo infuocato, come per l'urto a una parete solida. Ritentai (la donna urlava adesso il nome del marito, strappava l'anima). Dovetti ritrarmi, appena in tempo! Con fracasso il tetto precipitò; l'abituro si sfasciò in una rovina fiammeggiante e fumante…

Non so dire in che modo urlava e che diceva quella donna frenetica col bambino in braccio; non posso ricercare quello che io provassi allora assistendo al fumare della rovina; a immaginare il corpo umano che si era contorto nelle fiamme; a comprendere la verità…

Compresi la verità a poco a poco. Un istinto di generosità paterna, l'amor di padre aveva spinto quell'uomo delirante a mettere là in salvo, dalla sua disperazione, la piccola creatura; poi, con mostruosa demenza egli aveva dato fine al male che lo affannava, aveva dato fuoco alla sua intollerabile miseria.

VI

Al raccapriccio seguì tosto in me una commozione paragonabile a quella che proverebbe un credente nella subitanea rivelazione della divinità. Prevalse in mie alla visione orribile dell'incendio e della donna pazza per dolore e angoscia, l'immagine stupenda della madre che nel raccogliere salvo il suo bambino m'era sembrata impazzire di felicità; e più che la pietà del miserabile, perito orrendamente, poteva in me l'ammirazione per la forza arcana e portentosa che aveva costretto il misero padre ad esentare dalla distruzione la creatura del suo sangue. Mai, per nessun fatto che esaltasse l'amor di padre o di madre, mai io ero rimasto commosso in tal modo: una luce che non era di scienza mi illuminava ora il mistero della vita; e la ragione delle sue leggi imprescindibili e la ragione della morte mi si manifestava d'un tratto nella rivelazione del bene sommo conceduto ai viventi. Quanto affetto aveva condotto quell'uomo spietato verso sè stesso ad aver pietà del suo nato! Quanto affetto aveva sollevato la misera donna a dimenticar fino il padre dei suoi figli, che bruciava là sotto, perchè ella gioisse così, nell'istante che ricuperava il suo figliolo! Quale gaudio sublime è negato dunque a chi si rifiuta alla procreazione? che è mai la morte se non il mezzo a trasmettere questo, il maggior gaudio dell'esistenza?

Invece di dire: «la morte è necessaria a propagare la vita» si dovrebbe dire (io pensavo): la morte è necessaria a propagare la felicità dell'esistenza e la felicità si attinge soltanto nella procreazione.

A consolare gli uomini privati d'ogni fede la filosofia moderna ha detto loro: «La morte non esiste perchè la vita è continuo rinnovamento e continua trasformazione».

Invece io pensavo: «La morte esiste, ma il più gran dolore che la morte può dare è nulla in confronto alla più gran gioia che dà la vita, e la più gran gioia della vita è nell'amore per le creature della nostra vita».

Ed io a quarant'anni, nella virilità piena, ignoravo quest'amore così grande che oltrepassa la capacità della vita individua; così grande da render riguardoso della vita l'uomo che con frenesia feroce la troncava in se stesso!

Un desiderio nuovo penetrava ora la mia passione, la rischiarava del tutto; m'infondeva un senso di vitalità potente: proverei le gioie dell'amore paterno; Ortensia sarebbe la madre della mia prole!

E per un contrasto men strano forse che naturale la memoria di mia madre, in quei giorni, mi accompagnava nei noti luoghi più viva che mai.

VII

Avevo predisposti il Biondo e sua moglie alla visita che m'aspettavo, ma avevo anche raccomandato loro di non far troppi preparativi e di fingersi ignari, per lasciar a Claudio il piacere dell'improvvisata.

La domenica, al giungere del secondo treno del mattino, il vecchio indossò la giacca da festa e calcò in capo la berretta nuova; la vecchierella, ben pettinata e tutta nitida, si strinse intorno al collo un fazzoletto di seta rossa che su l'invernale gabbano di flanella a scacchi e sotto il candor dei capelli dava segno di primavera e d'allegrezza; ed entrambi s'appiattarono in casa ad attendere, palpitando. Io guardavo di fuori, dal prato.

Ahimè! Il treno giunse; ristette; ripartì; e l'attesa fu vana.

Proteste e brontolio della Rita, che aveva fatto sin la torta! Ma il Biondo ripeteva:

– Volete scommettere che vengono con la corsa delle tre e mezza?

Ci colse. Poco dopo che fu passato quel treno, eccoli spuntare.

Ma non tutti: soli Claudio e Ortensia.

Andai alla loro volta. Moser più spontaneamente lieto di quel che non fosse stato da un pezzo, sbraitava:

– È un'ora che ti chiamo! Ho cominciato a chiamarti dalla stazione! Sei diventato sordo?

E Ortensia:

– Il babbo, se non ero io a trattenerlo, si metteva di gran corsa…

– Ma è l'ora questa?.. – io dicevo. – E Eugenia e Mino?

Rispondevano insieme:

– Mino non ha meritato la vacanza…

– Non ha imparato la costituzione di Servio Tullio!

– La mamma ha dovuto restare a casa a far la guardia…

– Ohe! Biondo! Pulicreta! Siete ancora al mondo? – urlava Moser.

Mormorava Ortensia… (Come bella!.. Vestita di chiaro; un po' riscaldata in viso; e si levò l'ampio cappello, e il sole la irradiò):

– Il maestro ha riferito al babbo che Mino non ha voglia di studiare e che non passerà all'esame… Non è da compatire? Ha sofferto anche lui; ora si distrae. Il babbo questa volta è stato inflessibile… Ma – chiese forte – perchè dite che non è aria buona quaggiù?

– In primavera…

– L'aria! – m'interruppe Moser. – L'aria, sì, è sempre quella: un po' pigra; ma buona anche qui, perchè, grazie a Dio, siamo in Italia! Il resto, bambina mia, è mutato. Tutto mutato… Non vedi? Io non riconosco più nulla: mi sembra tutto vecchio!; fino quegli olmi giovani là mi sembrano decrepiti.

Non pensava che invecchiato era lui.

– Anche la casa è sempre quella, dici tu, Sivori? Ammetto: «Salve, dimora casta e pura!» Ma intanto il Biondo non c'è! la Pulicreta non si vede! Bisogna cantare, invece, il De profundis?.. Ohe, Rita detta Pulicreta! Ohe tu che fosti il Biondo! Venite! Sorgete! Fuori!

E come Lazzaro all'imposizione di risorgere, il Biondo mosse la testa fuor della porta, poi uscì del tutto con la berretta in mano, inchinandosi al forestiere che fingeva di non conoscere. Moser rimase fermo, a bocca aperta.

 

Diceva il Biondo:

– Io lo ravviso… questo signore… e non mi posso ricordare… Corpo…! Direi che ravviso anche quella signorina lì; e sono certo, certissimo di non averla mai vista! Certissimo!

Ma Claudio assalì il vecchio mentre faceva tal meditazione con le palpebre basse e l'obbligò a scoprir le pupille:

– Sei tu davvero?! il Biondo?!

– Ma è lei?!.. Claudio! Ah corpo!.. il signor Claudio! Rita! Rita! Venite a vedere chi c'è! Il signor Claudio! il cacciatore! l'amico del signor Carlo…; – e intanto Moser per poco non lo schiacciava abbracciandolo.

Ortensia sorrideva. Rise alla seconda scena, quando comparve la donna.

– Oh Vergine Santissima!: il signor Claudio!

– Oh Vergine Pulicreta!, come siete vecchia! Qua che vi abbracci anche voi… – E staccandosi da lei: – Una bella vecchietta, però! Camperemo cent'anni, noi due!.. Evviva!

E lei a ripetere: – Oh che matto! che matto!

Indi i complimenti alla signorina:

– Me ne rallegro tanto di vederla così bella! La mamma cosa fa? Sta bene?

– Su, presto! Dammi lo schioppo! Due colpi, prima d'andar in paese a trovar le vecchie conoscenze.

– Ma non si può, signor Claudio! È tempo proibito, adesso! – avvertiva il vecchio.

– Dammi il «catenaccio» ti dico!

Il Biondo dovè portargli lo schioppo secolare, che Claudio chiamava il «catenaccio».

Caricandolo – prima la polvere; poi la stoppa; poi i pallini, e ancora stoppa – Moser brontolava:

– Questo almeno non è invecchiato!

– Badi, signor Claudio, che ci sono i carabinieri; il delegato può credere che siano schioppettate di socialisti! – ammoniva ancora il Biondo. – Ai tempi che corrono…

E io:

– Ti proibisco di tirare alle rondini!

Ne accennai il nido ad Ortensia.

– No! babbo! sii buono! – pregò essa con pietà che parve improvvisamente ridestata in lei. – Hanno il nido!

– Lasciatemi fare! I rondoni sono scapoli!

E sparò contro una rondine, s'intende, senza colpirla.

Dopo che la colazione fu divenuta merenda e mentre Claudio e il vecchio s'incamminavano verso il paese, io e Ortensia prendemmo il sentiero più breve per giungere alla risaia. Ortensia non aveva notizia della sciagura dello Zingaro; nondimeno evitai la parte ov'era stato il «capanno» e la condussi a costa della landa, di dove più spaziava lo sguardo. Ella guardava, con poche parole: io godevo che lo splendore del giorno le penetrasse nello spirito. Mai più chiaro cielo; mai aria più aulente e quieta; mai più vivaci fiori nell'aperta piana, in cui il fieno maturava per la seconda falciatura.

La varietà dei colori assorgeva concorde dal verde come quella delle voci in una sinfonia meravigliosa: giallo di stelline, crocifere e ranuncoli; lilla di porrette; viola di morette, castagnole e salvie; bianco di magnugole e nigelle, ravizzi e narcisi; rosa di ginestrine, lupinella e trifoglio; rosso di serpillo, sorbastrella e papaveri; porpora di graziole; cilestre e azzurro di giacinti e fiordalisi, di poligole e buglasse…; e margherite da per tutto! Quante!

Di tratto in tratto Ortensia si chinava a spiccare un fiordaliso, o un garofano, o un geranio campestre. Poscia tendendo la mano esclamò:

– Oh gettarsi là, in mezzo; a correre e cantare!..

– Va! – dissi io.

Ella sorrise triste:

– Non si può, senza calpestare.

Timidamente, nei tardi passi, io avvertivo che il suo sguardo era pieno di ricordi. Ma il suo sguardo era triste, mentre in me pareva approfondirsi la coscienza dello spirito, estendersi la capacità vitale d'ogni senso, vibrare ogni minima forza a una sconosciuta armonia. Che giorno!

Rapiva una letizia lieve quasi di sogno eppure tenace e valida; era un'illusione suscitata e mantenuta dalla divina realtà intorno; un vago desiderio, continuo, di continuo esaudito nel fluire degli attimi; e più che la promessa della semplice felicità umana, ferveva nel sole, nell'aria, nella terra palpitante di fecondità, una felicità certa e immanente, naturale e sublime.

Ma Ortensia era triste…

Giungemmo all'argine. Quasi per frenare una sensazione troppo forte, essa teneva la mano contro il cuore: attese prima di salire e disse: – Qui l'aria mi sembra più greve.

– Anche pochi passi – diss'io – e saremo al serbatoio.

Di su l'argine mi domandò perchè la risaia era così divisa, in tanti quadri.

Risposi:

– Perchè il vento non agiti l'acqua e l'acqua non rompa le pianticelle ancora tenere.

– Ma dell'acqua ce n'è poca!

– L'acqua è ancora fredda, e, al contrario, la prima messe del riso ha bisogno di caldo.

Eran dimande e risposte che protraevano altre dimande e altre risposte. Io aggiunsi:

– V'immaginate la vita delle risaiole a strappare, ad una ad una, le piante maligne, con l'acqua alle ginocchia, i piedi nel fango e il sole che batte sulla schiena?

– Disgraziate anche loro! – E accennando: – Quegli alberi là?

– Sono i salici del serbatoio. Andiamo!

In breve fummo al luogo d'imbarco; lo schifo era legato a un piuolo…

– Mi fido poco io, di voi! – fece Ortensia, per un istante eccitata dalla novità.

– Alla prova! – esclamai io sostenendola all'entrar nella barca; e sciolsi la corda.

Ai primi colpi di remo, ella fu persuasa della mia valentia.

– Bravo! – Poscia guardando intorno mormorò quasi vinta: – Bello!

Infatti anche l'acqua sembrava riposare e godere in distesa azzurra, chiazzata qua e là dal verde delle ninfee e sparsa di macchie, or scarse or copiose in cannucce e giunchi, e chiusa all'ingiro dalle sponde ombrose di salici; mentre la barca procedeva piano piano, soavemente, per quella frescura.

Canerini di valle s'elevavano con un vocìo sottile, così lieto da crederlo non voci di paura ma di più viva gioia nel volo.

Finchè la barca trovò adito in mezzo alla macchia più folta e ristette dove l'acqua, bruna bruna sotto l'ombra, rivelava un brivido, al rezzo.

Udimmo uno sparnazzar d'anitre e di folaghe; poi, silenzio.

– Restiamo un poco? – io domandai.

– Sì.

D'improvviso, Ortensia esclamò: – Avete sentito?

Dopo un fruscìo d'ali e di fronde udimmo un richiamo.

Io allora feci avanzare la barca, perchè ella rimovesse le fronde. E gettò un grido di meraviglia.

Un nido di folaghe…

Ma era giunta, finalmente, l'ora. Ella lo sentiva; io ebbi un tumultuoso risveglio di tutto il passato: propositi, prove di abnegazione, battaglie; vittorie angosciose; angosce di lontananza; tormenti di gelosia; rimorsi; disperazioni; speranze; tutto, tutto sarebbe stato inutile se io in quell'ora non avessi vinto!

Abbandonati i remi afferrai la destra di Ortensia; la interrogai a lungo con lo sguardo prima di parlare.

Ella sostenendo il mio sguardo aspettò le parole che non poteva più evitare.

– E la spiegazione?

Arrossì. Chiese, risoluta:

– Volete soffrire? farmi soffrire? Ebbene, son pronta! Dite dunque, dite! Che cosa volete sapere da me?

– Perchè siete così mutata con me? Perchè mi guardate con diffidenza? Perchè non vedo più nei vostri occhi la luce d'un tempo? Perchè, Ortensia, mi hai detto che non ci comprendiamo più e non comprendi tutto il bene che io ti voglio?

Stringevo la sua mano con tremito convulso. Nella mia attesa doveva trasparire il timore d'una grande speranza che stia per mancare, di una disperazione forse che stia per prorompere: ella ritrasse la destra, la passò su la fronte come a diradare e schiarire una folla d'idee confuse; poi, pallida, ma con voce più ferma della mia:

– Sono mutata: è vero; ma non solo con voi, con tutti! Vi guardo così, come dite, perchè vi temo.

– Che male…? – Volevo dire che male potevo farle ancora.

M'interruppe:

– Vi temo perchè v'illudete e la vostra illusione ci renderà più infelici tutti e due. Sì: non ci comprendiamo più. V'illudete! Credete che io possa tornare quella di una volta… È impossibile! Riflettiamo, Sivori: che ero io una volta? Sciocca, ero. Dopo che la mamma fu guarita – vi ricordate? – mi pareva che avessero creato il mondo apposta per me, per la mia felicità. Quella mia spensieratezza, quella mia gaiezza vi fece vedere in me una ragazza diversa dalle altre… Ma v'ingannaste: ero una cervellina come tante altre. Solo, avevo molto cuore. Voi mi attribuiste più intelligenza di quella che avevo e non conosceste il cuore che avevo: da qui tutto il male.

– Ah no! Se non avessi conosciuto il tuo cuore non avrei sofferto tanto; non ti avrei amata così! Tutto il male fu nel mio amore che non seppi nascondere; questa fu la mia colpa! Ma l'ho scontata… Ortensia, Ortensia! Quanto soffrire! Se io fossi stato più forte, se non ti avessi indotta ad amarmi, la passione non avrebbe fatto cattivo un uomo che forse non era cattivo; non dovrei incolparmi della rovina di tuo padre…