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In faccia al destino

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E risoluto, mi recai ove mi aspettava Roveni.

M'aspettava, allo studio dell'ingegner Salghi, ritto in piedi tra la finestra e l'ampia tavola da disegno, fumando un sigaro virginia, con l'aria di chi s'adatta a stento a ricevere un importuno o un inferiore.

Non aveva pronunziata che una parola: «avanti!», quando io, di fronte a lui, fermo, fissandolo, dissi senza preamboli:

– Moser è scappato…

Alla notizia, mi accorsi che egli non rimase padrone di sè quale voleva parere, e lo sforzo che sosteneva per sembrar tranquillo fu manifesto a un istantaneo abbassar dello sguardo.

Pensò senza dubbio che se Moser era fuggito, Ortensia, non avendo più da temere denuncia o processo per il padre, gli sfuggiva.

Io gli chiesi:

– La notizia vi meraviglia?

Allora i suoi tocchi bianchi tornarono su di me; con la sinistra s'affilò l'uno dei baffi e disse a mezza voce, affettando incuranza.

– Peggio per lui se è scappato!

– No! peggio per voi! – Mi sentivo superiore io poichè la sua voce era stata malferma; e volevo tagliar corto. – Peggio per voi!

E aggiunsi nello stesso tono: – Io so perchè Moser è fuggito come un ladro! so che la colpa è vostra!

Roveni rise sguaiatamente deponendo lo sigaro su la tavola e incrociando le braccia; ma la risata cessò d'un tratto, del tutto; anche nell'ironia non serbava sorriso. Poi disse:

– Benone! Se Moser è fuggito come un ladro la colpa è mia! E se domani s'imparerà che si è ammazzato, sarò io l'assassino che l'avrà ammazzato!

– A questo punto? – io gridai. – Così, con tutta la brutalità che non avete più coraggio di nascondermi, voi potete pensare a questa sciagura estrema, a questa conseguenza ultima del vostro tradimento? È l'incoscienza! E io che son venuto qua per accusarvi dinanzi alla vostra coscienza! Non vi ho ancora conosciuto abbastanza! Volevo dirvi che non avete saputo ordire così bene i vostri inganni da scampare alla condanna degli onesti. Ma mi accorgo che non vi ho ancora conosciuto abbastanza! Come dovete esser tristo!

Per lui furono parole che gli diedero tempo di rimettersi e delle quali non sospettò tutta la gravità. Credè, forse, che io parlassi vagamente d'inganni, nè supponeva che Moser fosse salvo e che mi fosse nota la frode perpetrata nei libri della ditta. Sempre pallido, ma sicuro adesso nello sguardo freddo e nella voce, e privo di sorriso, ribattè:

– Adagio, signor dottore; calma! Corre troppo, lei! Lei mi ha già detto, tutto in una volta, che io sono un ingannatore, un traditore, un tristo, un incosciente. Lei mi sembra un rappresentante del Pubblico Ministero che fa la requisitoria a un povero diavolo d'accusato e gli scaglia contumelie in nome della legge. Ma prima di far la parte di accusato io voglio domandarle in nome di chi e con che diritto si assume, lei, la parte di Pubblico Ministero!

– In nome della vostra vittima; col diritto che mi dà l'amicizia di Moser; col diritto di chi ebbe il torto di credervi diverso da quel che siete e di favorire senza volere i vostri inganni.

Tacque; ripigliò il virginia. Il suo sguardo mi sfuggì mentre lo riaccendeva riflettendo. Allo stesso modo che Learchi dalla pipa, egli attingeva forza e prudenza dallo sigaro.

– Benone! – fece poi. – Ora le concederò di giudicarmi. Solo la prego di lasciar da parte le parole grosse, che su di me non hanno presa. Amo i fatti, io. Dunque: sono accusato d'inganni. Con molta calma, come vede, rispondo che l'ingannato sono io, e glielo provo. Non ho nulla da nascondere, io!

Il suo sguardo, divenuto tagliente, compiva il significato dell'ultima frase: accusava egli me di simulazione. Ma troppo lontano dall'immaginare che cosa comprendeva quella frase «non ho nulla da nascondere, io!», non la raccolsi e attesi.

Egli proseguì:

– Per dirle tutto, le dirò anche cose che lei conosce; ma è necessario togliere ogni dubbio, ogni equivoco fra noi due… Quando l'ingegnere Moser ebbe bisogno di un direttore che gli raddrizzasse la baracca, mi chiamò a Valdigorgo e mi promise mari e monti. Fin d'allora aveva in vista il fallimento. Io usai tutta la mia energia per riparare; introdussi economie e riuscii a ordinare e migliorare il personale, a migliorare la produzione. Per contratto non avevo obbligo di far la metà di quel che feci: per compenso del di più non ebbi un soldo di più del meschino stipendio, e le promesse sfumarono. Ma l'ingannatore sono io! Avrei potuto trovar di meglio e andarmene subito dopo il primo anno, e lo dissi. Mi scongiurarono di restare. M'ero affezionato alla famiglia…

– Affezionato alla famiglia! – interruppi ironico.

– Sì: affezionato alla famiglia! Lo ripeto. Aggiungo che a Valdigorgo rimasi anche perchè una delle ragazze Moser cominciava a piacermi. Per essere sicuro del terreno dove mettevo i piedi, come vuole il mio temperamento, un giorno discorsi di quella mia simpatia alla madre. La signora o previde che io non piacerei alla capricciosa figliuola o per la bella figliuola sperava un miglior matrimonio; ma, d'altra parte, temeva che io piantassi in asso il marito, e mi pregò di lasciar passar qualche tempo prima di dichiararmi… E l'ingannatore sono io!

– Eugenia Moser accusata di sotterfugi, di simulazione, da voi?..

– Non da me; dai fatti – oppose egli. – Sono fatti, questi! Se li può smentire, aspetti che io abbia finito: ci sbrigheremo più presto.

Lo lasciai dire.

– Un bel giorno arrivò l'amico di casa…

Ma a vedermi urtato dalla espressione, si corresse subito: – … un vecchio amico della famiglia; non così vecchio però da non innamorare a poco a poco la signorina che piaceva a me. Io non sospettavo; pensavo a un'affezione quasi paterna; non badavo alle chiacchiere. Il dottor Sivori sapeva le mie intenzioni, le sapevan tutti: perchè sarebbe stato sleale? Invece egli amava e innamorava la signorina… E l'ingannatore sono io!..

Questa volta aveva colpito meglio. Io tacqui ancora. Fatto più sicuro dal mio silenzio, Roveni continuò:

– Ma dovetti pur persuadermi che la signorina era incapricciata di lei, dottor Sivori. Perciò le domandai quel colloquio prima della sua partenza; e volli dimostrarle la serietà dei miei propositi. Sivori ha molto potere su Ortensia – mi dicevo – ; la convincerà a non far sciocchezze, a non trattarmi indegnamente. Invece lei, signor dottore, fingeva. Dopo aver innamorata la ragazza, scappava; per una misteriosa ragione, senza il minimo tentativo di riparare al mal fatto, scappava… E l'ingannatore sono io!

Domandai: – Avete finito?

– Non ancora! Quando fui stanco di fare il collegiale e di aspettare la manna celeste, ed ebbi una nuova proposta d'impiego lontano, volli uscir d'incertezza; interrogai Ortensia. Mi rispose: «Non ci penso, per adesso, a maritarmi». Non era un no: potevo sperare, e rimasi. Ma la signorina non disse no allora per riguardo al babbo, che aveva bisogno di me. Il no venne dopo, quando la società progettata da Moser pareva sicura e non si danneggiava il babbo disgustandomi. E sono io l'ingannatore!

– Avete finito? – ripetei più forte.

E Roveni, più forte ma pur come chi si padroneggia anche nella vittoria:

– Non ce n'è abbastanza? Vuol dell'altro? Ecco! L'affare della società andò a rovescio. Moser stava per fare il capitombolo; gli operai, senza paga, minacciavano di prenderlo a sassate. All'ultimo momento mi domanda una somma per restituirmela, s'intende, il giorno dopo. Io gli do tutto quello che ho: i miei poveri risparmi; e il giorno dopo Moser fallisce… Chi è l'ingannatore? Adesso ho finito!

Buttò in terra il resto del sigaro; incrociò le braccia e con un moto del capo più insolente che accondiscendente:

– A lei!

– Avete finito male, come avete cominciato! – feci io, a mia volta. – Per accusar di falsità Moser, Ortensia, Eugenia, me, non vi siete accorto che svelavate voi stesso del tutto: falso in tutto, falso sempre! Consapevole del vostro basso egoismo, voi assumeste la figura di un uomo risoluto e diritto nel pensare e nell'operare, ma foste sempre un calcolatore; non prudente: astuto, doppio. Finchè, per disgrazia, vi siete smarrito in una passione e l'arma vi si è scambiata in mano: dopo essere stato astuto siete stato audace; e siete caduto.

– Caduto, io? – Rise in quel suo tristo modo.

– Voi! Oh credete che io sarei venuto a questo diverbio se non fossi certo di superarvi e di smascherarvi? Giù la maschera! I vostri benefici per Moser che scopo ebbero? Aiutare Moser valeva assicurarvi la dote della ragazza che vi piaceva. Ma non eravate uomo, voi, da compromettervi per un capriccio: tastar terreno, metter le mani innanzi, predisporre la madre prima della ragazza senza compromettervi nè con l'una nè con l'altra, era la tattica nascosta sotto l'apparenza di franchezza e di lealtà. Corteggiare Ortensia era pericoloso; correvate il rischio di non poter più liberarvene se le faccende di Moser si volgessero al peggio. Il vostro riserbo intanto… – Ortensia era così giovane! – vi meritava la stima della madre; il padre non poteva stimarvi di più, e Ortensia adora i suoi; al momento opportuno avrebbe ascoltato il loro consiglio…

Con una smorfia di riso, che parve ora una stigmata di cattiveria, Roveni venne di qua dalla tavola, si arrestò spavaldo di fronte a me, e m'interruppe:

– In quel mentre però avrei potuto spassarmela anch'io con la ragazza di nascosto, come faceva chi portava la maschera dell'amico di casa!

– Tacete! – urlai sul punto di scagliarmegli addosso. – Non osate malignare, voi, sul mio affetto e su la mia condotta! Per spassarvela voi avevate Anna Melvi! Ortensia non le rassomigliava: a diciassette anni avrebbe già saputo frenare la vostra volgarità. Oh quando penso che dopo gli eccitamenti di un'Anna voi, chissà quante volte, avrete contaminato nel vostro pensiero… – (mi arrestai con ribrezzo) – Ma appunto ciò fu quello che vi vinse! Ortensia era tanto diversa dall'altra!, dalle altre! Ve ne innamoraste troppo; come non avreste mai creduto, come non riusciste a celare nemmeno ai miei occhi; ed ero cieco per voi, allora! Chi l'avrebbe mai detto? Venne il giorno che l'avreste sposata anche senza dote, Ortensia! Gli affari di Moser andavano male, ma non avevate più la forza di lasciar Valdigorgo. E non potevate immaginarvi che Ortensia vi rifiutasse; così buon partito! Finchè venne un altro giorno che Ortensia vi disse no, addirittura. No, a voi! no, a Roveni! Insisteste: fu peggio. La volontà di una ragazza di diciassette anni era più forte della vostra voglia! L'amore diventò in voi una passione delittuosa; e dinanzi all'ostacolo ricorreste alle minacce.

 

– Verissimo! L'avvertii, la signorina, che potevo far molto bene e molto male a suo padre. Colpa sua se volle il male!

– E il primo passo fu quello di dissuadere i creditori dal compor la società: è vero?

– Sì! – Mi sfidava apertamente a proseguire sperando d'arrestarmi tosto, e rifarsi.

Proseguii:

– Ortensia non si piegò! Allora prestaste duemila lire a Moser per interporvi ai creditori e dominarli; per impossessarvi di Learchi e aver in mano la rovina di Moser. Ortensia non cedè neppur allora. E voi affrettaste il fallimento, dopo aver falsato i libri della ditta…

A udir questo, Roveni divenne livido fin nelle labbra e fece come un serpe che si raccoglie in se stesso, incerto se di celarsi ancora o d'avventarsi. Tentò di sorridere; ma fu un sorriso viscido e velenoso; gli occhi bianchi mandarono fiamme. Poscia ricuperò idee e voce:

– È un'insinuazione ridicola!

Io procedevo:

– Impossessandovi anche dell'onore di Moser pensavate: se Ortensia vuol salvare suo padre dal disonore, cederà; se non cede, mi vendico! Ah avere amato, desiderato, aspettato per degli anni, voi, e senza riuscirci! Aver speso duemila lire! Si ha diritto di possedere una bella ragazza per duemila lire!.. La vostra vendetta doveva esser degna del vostro amore; della vostra passione!

Roveni rifletteva, senza più sforzo di dissimulare. Adagio, contro la mia irruenza, disse:

– E così io avrei dato di cozzo nel codice?.

– Non so che pezzo di carta basta a difendervi!

Anche questo mi aveva detto il curatore! Colpo non aspettava colpo. Bisognava fingere di nuovo.

– Benone! – egli riprese. – Ma che tutto ciò è assurdo, che è roba da romanzo, lo prova un'ipotesi molto semplice, molto probabile, che lei si è dimenticato di fare. Le parole grosse mandano a rotoli la logica! È logico supporre che nello stesso tempo che Ortensia avrebbe dovuto arrendersi a discrezione il curatore avrebbe potuto scoprir la frode. Come avrei fatto io, in tal caso, a salvar il padre per amor della figlia?

– Persuadendo Learchi ad accomodar tutto, o trovando altrove ventimila lire. L'avrete ben prevista la via di uscita!

– E lei è proprio convinto di tutto questo?

– Convinto? Ma non vi ho già detto che Moser è fuggito come un ladro? La frode è scoperta!

A questo punto, in un istante, vacillò e s'avventò:

– Benone! Oggi stesso informerò io il Procuratore del Re che si è scoperta una frode nel fallimento Moser e che Moser l'ha fatto fuggire lei d'accordo col curatore!

Credeva d'avermi abbattuto, finalmente!

Ma a udire:

– Troppo tardi! Moser è già salvo! – ; a udir tali parole Roveni rimase come a ricevere una mazzata sul capo. Il sangue gli affluì tutto al volto. Fuori di se, mi assalì, mi afferrò al petto, inferocito – una tigre – urlando:

– Chi l'ha salvato?

– Io!

Allora il braccio gli ricadde pesantemente; chinò il capo; sghignazzò, livido di nuovo; disse:

– Anna Melvi aveva dunque ragione!.. L'amico di casa ha salvato l'onore del marito… Adesso potrà sposarla, la figliola… senza più dispiacere alla madre…

Che cosa? Una cosa orribile! Mi parve di comprendere; compresi… E afferrandogli un braccio con violenza pari alla sua:

– Spiegatevi! – Aveva gettato fango e veleno su Eugenia! Eugenia! – Spiegatevi!

Egli mi guardava fisso: – Voglio dire che il codice non contempla il caso dell'amante della madre che sposa la figliola.

La mia destra sfiorò la guancia del miserabile. D'un balzo egli si era sottratto da un lato. Si ritrasse verso la porta laterale e toccò il bottone d'un campanello. Fu un attimo. Contro di lui urlavo:

– Vigliacco! Calunniatore infame! – Ma già un servo o un portiere che fosse, evidentemente in attesa mi tratteneva. – Vigliacco! – urlavo. – I sicari! Hai sicari in agguato! – e tentavo divincolarmi, rivolto a lui.

Immoto, su la soglia, Roveni mi guardava; pareva attendere che mi quietassi per parlare. Stretto da quell'altro io gridavo sempre più forte:

– Vile! vile! Calunniatore di donne! falsario! E mi dibattevo.

– Insultatemi impunemente! – Roveni potè dire alla fine. – Non mi batterò; non voglio mandarvi una palla nello stomaco! Dovete vivere! Devi vivere! – Mi par di sentirlo ripetere «devi vivere!»

E agitando la destra, quasi a farmi grazia, e volgendomi le spalle, nel rinchiudere la porta dietro di se, mormorò non so che di «vendetta».

– Fuori! fuori! – ripeteva intanto quell'altro, che mi spingeva verso l'altra porta. Io gridavo ancora: – Vigliacco!

XII

Non si batterebbe. Anche se insultato, oltraggiato in pubblico, si comporterebbe da quel facchino che era e non si batterebbe, per un lontano e oscuro scopo di vendetta. Ah no?.. Ma non aveva previsto, l'uomo sagace, che per indurlo a operare da gentiluomo e per evitarne le bassezze c'era un modo più persuasivo di quel degli schiaffi: c'era la stampa. Egli comporterebbe la vergogna di ogni offesa in un pubblico ristretto e in luogo limitato, ma alla minaccia d'esser trattato da vigliacco su pei giornali non potrebbe resistere. Doveva premergli la stima dei molti a quell'ipocrita della lealtà, a quell'ambizioso!

Così, ardendo d'ira com'è facile immaginare, andai subito in cerca degli amici che già avevo prescelti ad assistermi nel duello: il giornalista e l'ufficiale.

Di buon grado essi accettarono l'incarico.

… Non pochi che si sian trovati in attesa d'andar sul terreno avranno avuto, oso credere, un timore più grande che quello d'arrischiar la pelle: il timore di fare una magra figura. Un passo di più o di meno; un colpo di sciabola tirato un po' più in basso o un po' più in alto; un colpo di pistola sparato un secondo prima o un secondo dopo, basta a «squalificare» un gentiluomo; cosa orribile fin nel vocabolo. E c'è di peggio: perchè è anche possibile far ridere con qualche errore di inesperienza; e il danno del ridicolo è in proporzione alla solennità della funzione che si compie. Che cosa c'è che eguagli la solennità di un duello? Nessuna. Tutte le altre funzioni, dal matrimonio al funerale, accomunano ogni sorta di gente; ma i gentiluomini che si battono con tante regole son gente fuori del comune e più in alto; se no, non si batterebbero così. Ne viene che uno che faccia ridere in un duello è disprezzato pur dalla gente comune, la quale non si batte con tanta solennità. Ebbene, io ero disposto a morire, ed ebbi questo timore! Attendendo che i padrini tornassero cercai prepararmi con la fantasia ad evitare così gran disgrazia; nè mi domandavo se per l'addietro ci avrei pensato su tanto; nè mi meravigliavo d'essere così tenuto a modalità della vita proprio sul punto di rinunciarvi. Contraddizione ridicola, insomma, ma prova anche questa del mutamento avvenuto in me.

Mi immaginavo sul terreno; avanzavo numerando i passi; sparavo mentre vedevo Roveni procedere nella stessa guisa. Con uno sforzo resistevo alla tentazione istintiva di chiuder gli occhi e li spalancavo al momento del colpo. Guai se chiudessi gli occhi!: farei credere d'aver paura!; farei ridere i testimoni dell'una e dell'altra parte! Studiavo anche la miglior maniera di comportami durante le disposizioni preliminari; e non esitavo a figurarmi la catastrofe, cadessi io o cadesse Roveni…

Però insieme con questo ricordo di vaga e insulsa comicità mi è rimasto il ricordo serio di un sentimento che allora mi sembrò un presentimento assai triste. Mentre fantasticavo in tal modo, mi si affacciarono alla mente, d'improvviso, le immagini di mio padre e di mia madre; con perspicue sembianze di dolore. Mia madre ancora giovine, pallida, sorridendo di quel sorriso che nessun volto mai ebbe per me, e quale mi guardava allorchè io, ragazzo, ero malato; mio padre con quei suoi occhi pieni di bontà e il capo un po' chino, come sotto un peso di sventura. L'impressione che n'ebbi mi fece dubitare di rimanerne troppo a lungo commosso. Forse… di là… mio padre e mia madre attendevano, così, il mio destino incerto anche per essi?

«Chi sa quali sorprese ci prepara la morte?»

Ma, di ritorno, gli amici apparvero visibilmente malcontenti nello stesso modo e nella stessa misura, non so se più di me o di Roveni. Mentre il giornalista mi sogguardava, ripulendo gli occhiali col fazzoletto, il rigido ufficiale parlò:

– L'ingegner Roveni s'è trincerato dietro l'articolo 151.

– Che articolo?

– «Si respinge la sfida dell'offensore che ha provocato ed offeso senza giusto motivo».

– Senza giusto motivo?

Era il colmo della sfrontatezza!

– Lo sfidato – riferì il capitano con l'attitudine di chi cita un nobile esempio – ha ascoltato le nostre comunicazioni senza commento; solo, ha preso il codice Gelli e ha indicato l'articolo 151 dicendo: «Ecco la mia risposta».

– Io però – disse il giornalista – son uscito dalla prammatica che obbliga i padrini a non discutere e ho avvisato quel signore che si pubblicherebbe il verbale. E lui: «Risponderò pubblicamente, se il dottor Sivori vorrà lo scandalo!» E io: C'è poco da rispondere! E lui: «Mi basterà dire ciò che potrò provare: che l'ingiuriato fui io; che credetti mio dovere non raccogliere le offese, e credo mio dovere non dar seguito alla vertenza per non compromettere due signore: quella che il dottor Sivori si sente in obbligo di difendere e quella che io non ho l'obbligo di difendere, ma che mi fornì la notizia sgradita al dottor Sivori».

(Eugenia Moser e… Anna Melvi!)

– Allora io ho detto – proseguì il giornalista – : Badi, signor ingegnere, che nessun articolo di nessun codice o nessuna signora di questo mondo tratterrà Sivori dall'assalirla pubblicamente, e la stampa riferirà l'accaduto. E lui: «In tal caso, trascinerò il dottor Sivori in Tribunale, e lo scandalo sarà più grande e più doloroso per una terza persona: il dottor Sivori sa quale».

Ortensia! Ortensia apprenderebbe ciò che si diceva di me e di sua madre!

– Dopo ciò, che si fa? – il giornalista mi chiese.

Ero annichilito! Ad ogni costo, dovevo evitar il pericolo di quella propalazione infame! Dovevo cedere alla minaccia.

– Dopo ciò – io dissi – voi vi sarete convinti che io ho a che fare con un mascalzone furbo e pericoloso.

Ma il giornalista: – Io sono convinto che tu hai a che fare con uno che ha paura!

– Roveni – osservai sorridendo, per celare l'intima angoscia – è un formidabile tiratore a pistola.

Osservò l'ufficiale:

– Eh! credi non si possa essere tiratore formidabile e nello stesso tempo aver paura?

XIII

«Si ricorda?» Con compiacenza patetica Anna Melvi, quel dì che andammo alle Grotte, m'aveva chiesto: – «Si ricorda di quando io e Marcella, piccoline, correvamo innanzi, mentre lei e la signora Eugenia andavano incontro a Moser, e la signora Eugenia portava in braccio Ortensia? Una Madonna! E a chi ci domandava chi era lei, noi non sapevamo che cosa rispondere…»

Io sarei stato, allora, l'amante di Eugenia!

Anna quel giorno lontano pensava: «Verrà forse l'ora che te ne farò ricordare amaramente». Così pensava per punirmi del mio disprezzo. Io la ferivo; io avevo scoperta e manifestata la sua intenzione di accalappiare Roveni. Guai se l'ingegnere le sfuggisse!

Finchè aveva sperato di sedurlo, la Melvi aveva taciuto: perduta ogni speranza, essa si era proposto di vendicarsi, a un tempo e a un modo, di me, di Ortensia – la rivale preferita – , e di Eugenia, colpevole d'esser la madre di Ortensia. E non era un bel colpo far appunto Roveni strumento della sua vendetta?

Ortensia infatti amava me; dell'ingegnere non voleva saperne. Ma Roveni apprendendo che io ero stato l'amante della madre, troverebbe ben lui la via a impedirle il mio matrimonio con la figliola!

Quante volte Anna Melvi, mentre osservava Ortensia con l'invidia e l'odio di cui è capace una rivale abbattuta, doveva aver pensato: «Per colpa tua e del tuo Sivori io non avrò Roveni, ma tu non avrai Sivori!»

Nè c'era da meravigliarsi che Roveni avesse creduto a una donna spregevole anche per lui! Le anime triste hanno legami di reciproca fiducia pur quando sembrano avverse. Poi, nessuno meglio della Melvi, la quale fin da bambina capitava alla villa Moser, poteva malignare con apparenza di verità intorno all'antica amicizia di Sivori e di Eugenia. Poi, venne il giorno che Sivori abbandonò Ortensia, e ciò confermava la calunnia; persuadeva magari Anna stessa d'aver cólto nel segno! Ah verrebbe forse un altro giorno: quello che Ortensia imparerebbe il perchè io l'avevo abbandonata: perchè ero stato l'amante di sua madre! Tal giorno dovette parer prossimo ad Anna quando Ortensia respinse definitivamente Roveni.

 

Se non che costui non era solito a precipitare: aveva creduto alla calunnia, ma se ne varrebbe solo a tempo opportuno…

(Sfinito dai lunghi viaggi, dalle notti insonni, dalle battaglie di pensieri e parole, io m'ero gettato sul letto.

Ma mi contorcevo e dibattevo in questa rete in cui i miei nemici mi avevano preso).

… E mi ero dimenticato affatto, per lungo tempo, di Anna Melvi…! M'era uscito affatto dalla memoria quel suo: «Me ne infischio… per ora!» Intanto l'altro sghignazzando mi ammoniva alla prudenza: «Giudizio! Non provocatemi in nessun modo; se no, rivelerò tutto a Ortensia». Questa la minaccia che Roveni aveva sospesa sul mio capo, di una terribile vendetta avvenire.

Ma insomma: chi conoscendo Eugenia Moser e me potrebbe credere alla calunnia, a un'infamia? Nessuno, tranne quelle due anime triste. Potrebbe dunque credervi Ortensia se Roveni arrivasse alla vigliaccheria estrema? Era un sospetto assurdo, il mio! mi ripugnava fin concepirlo più chiaramente… Infatti, a poco a poco, la mente mi si ottenebrava. M'assopii. Mi riscosse il pensiero di Claudio. Allora mi sfogai contro di lui.

Avevamo pattuito io e Guido che il primo a ricever nuove di Moser le recherebbe all'altro. Guido non era venuto a cercarmi all'albergo nè mi aveva mandata alcuna notizia. Nessuna notizia! Claudio però avrebbe dovuto aver più fiducia in me e ritardare quant'era possibile così dolorose angustie alla sua famiglia. Sapeva Ortensia della fuga del padre? L'avevo vista in preda a un orgasmo di follia allorchè mi aveva detto, a Valdigorgo, che l'onore del padre era in pericolo. Che aveva fatto, quanto aveva sofferto se Eugenia non era riuscita a celarle la verità della fuga? Ah! che pena, mio Dio!

Ma anche una tal pena, a poco a poco, cedette alla stanchezza; e mi addormentai.

… Dopo non forse più di mezzora mi risvegliò la voce del cameriere, il quale mi annunziava la visita di un ignoto.

Benchè desto di soprassalto, io mi sentivo nel sangue il breve ristoro e nello spirito quella leggerezza che si ha dopo il riposo e prima di riacquistare la piena coscienza dei propri mali. Accolsi quasi lietamente il visitatore. Egli, il signore ignoto al cameriere, era il cavalier Fulgosi; e io pensai, lì per lì, che venisse per riparare con i complimenti e le scuse al caso topico della mattina. Ma tutta la sua persona, cedendo a strane mosse, rivelò un turbamento nuovo e più grande. Volgeva il capo a destra e a sinistra, come una galana, per accertarsi che potevo udirlo io solo; quindi avanzando come le gambe lo reggessero a fatica esclamò con quanta efficacia d'espressione può attingere un afono: – Ha scritto!..

Moser – compresi subito – aveva scritto a lui; a lui che così pallido dava immagine di un morto con la barbetta e i baffetti tinti. Cadde a sedere e:

– Ha scritto… Son compromesso!

Quel terrore senza ragione e, più, l'amarezza che egli manifestava d'essere sacrificato senza voglia, indegnamente, mi fecero gustare un po' d'indugio a dimostrargli che avevo compreso.

– Ha scritto… Chi?

– Lui! – E si guardò attorno balbettando: – Ci Emme.

– Claudio Moser? – feci io a voce alta.

Il gentleman tenne per strombazzato a tutto l'albergo il suo pericoloso segreto; s'immaginò l'albergo circondato dalla polizia; e alzati gli occhi al Cielo e aperte le braccia al fato, significò che tutto egli aveva perduto benchè avesse fatto il possibile per non perder nulla.

– Moser ha scritto a lei?

Annuì col capo in silenzio; trasse dal portafoglio e mi porse una lettera. Scriveva da Genova. Al cavaliere, quale fidato amico, Moser accennava che dolorose circostanze l'avevano indotto ad allontanarsi da Milano e lo pregava di cercare di me. Mi troverebbe dove gli direbbe Guido: io, con falso indirizzo, l'informerei nel caso gli convenisse imbarcarsi…

– Perchè scrivere proprio a me, che ho famiglia? – susurrava, nel mentre che io leggevo, il cavaliere. – Compatisco… compiango…; ma per riguardo alla mia posizione, nella mia qualità di ex-ufficiale dello Stato… non avrebbe dovuto… mettermi a rischio… di comparire suo… complice! Che accadrà…? se si scopre che io?..

«Scappi anche lei in America», ebbi voglia di rispondere. Senonchè l'ometto poteva essermi utile; e gli tolsi la paura di corpo.

– Stia tranquillo! Moser ha perduto la testa. Non ha mai avuto e non avrà mai conti da pareggiare con la Giustizia.

– Davvero? Proprio? Oh come ne godo!

Avevo ridato la vita al morto!

– Se lo dice lei, dottore, non ci può esser dubbio!

E il più bell'indizio del miracolo da me compiuto fu che il cavaliere estrasse il fazzoletto e si spolverò le scarpe; quindi ricorse al noto taschino che teneva in serbo il famoso astuccio con lo specchietto e il pettinino dei baffi.

– Ne godo, da amico! Non dubitavo neppur io, in fondo… Mi pareva impossibile che quel bravo ingegnere!.. Solo, lei comprende, era legittimo, umano il timore che io, così impreparato al servizio, piccolo servizio impostomi dall'amicizia, io, dico, potessi rimettere del mio decoro…: l'onore… l'onore avant tout!

– Via! – feci, non concedendogli per buone quelle scuse – : da un uomo di cuore quale è lei, un uomo d'onore e in disgrazia quale è Moser deve sperare qualche cosa di più che parole!..

Con lo specchietto a mezz'aria Fulgosi non dissimulò di sentir il rimprovero e disse sinceramente e umilmente:

– Giacchè lei m'assicura… dica tutto quello che posso fare e lo farò volontieri.

Così dicendo pareva un altro uomo; diveniva simpatico.

– Ad avvertire Moser che non corre alcun pericolo e che deve ritornare, penso io. Lei e Guido pensino a Eugenia. Anzi: perchè non lei solo, subito?

– Io? Ma certo! Vuol telegrafare? Corro subito! – esclamò l'ometto scattando in piedi. – Ho la carrozza!

– A telegrafare penso io. Lei… va a Valdigorgo! Meglio di ogni altro lei può tranquillare la povera Eugenia, e Ortensia. La visita di un amico cordiale in questi casi è un gran benefizio. Lei dirà che mi ha visto tranquillo e contento; che io stesso l'ho pregato di recar lassù la buona novella: gli affari del nostro amico sono accomodati.

– Ci vado! – Riposto al suo luogo l'astuccio dello specchietto e del pettinino, Fulgosi portò la mano al cuore quasi per un giuramento o per un voto. – Ci vado davvero! Coute que coute.

Tosto però l'entusiasmo sembrò cadergli nella dimanda:

– Ma arriverò in tempo per il treno delle diciotto e venti?

Arriverebbe in tempo, affrettando il fiacre, anche ad avvisare la sua signora, che non dubitasse di un dramma o non soffrisse di gelosia se non lo vedeva a casa all'ora del desinare.

– Vado! – ripetè; non senza aggiungere:

– E la ringrazio, dottore, d'avermi dato occasione a dimostrare la mia sensibilità per quelle gentili signore, a torto provate dalla sventura!

Mosse rapido fino alla porta. Ma ivi s'arrestò; si voltò indietro, come trattenuto da un ostacolo impensato, insormontabile.

– E desinare? Dove desino?

– Nel vagone restaurant!

– Parbleu! – L'idea gli irradiò il volto. Desinare in un vagone restaurant nobilitava vieppiù il suo sacrificio… E partì.

XIV

Per parte sua, Guido Learchi nell'apprendere da me che era imminente l'arrivo di Moser si mise a ballare con poca dottorale dignità. Tutte le bugie inventate faticosamente, per quietare Marcella intorno l'assenza del padre, gli disparvero dalla faccia come le nubi, che restano di un temporale, al soffiare d'una brezza rasserenante; e la timorosa Marcella, a quel ritorno di letizia, si accertò che un gran malanno era accaduto e rimediato. Con insistenza non tediosa m'interrogava, mentre dalle sue braccia il bambino mi guardava con la stessa dolcezza degli occhi materni. Non mi schermii abbastanza bene; ella si persuase che suo padre mi doveva molto; e forse fin d'allora concepì la prima idea del tiro che mi giocò poi.