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In faccia al destino

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Finalmente avevo scorto il punto a cui il ragioniere aveva voluto condurmi: dovevo prevenire in lui la certezza che gli darebbero i documenti; se no, Claudio era perduto! Anzi il ragioniere era già certo; ma fingeva dubitare, perchè credeva anche lui nella buona fede di Claudio.

Che cosa dovevo dunque fare io? Che cosa potevo fare?

Rispose:

– Prima che io abbia le spiegazioni che voglio, si potrebbe, per evitarne le conseguenze… probabili, pareggiare il passivo all'attivo. Non è poi necessaria una gran somma! Calcolando che dalla vendita dei fondi e della villa si ricavino ottomila lire più del prezzo di stima – e ho già una proposta – , basteranno ventimila lire per accomodare ogni cosa.

– Quanto tempo mi concede a trovarle?

– Quarantotto ore.

Misurai nella mente il tempo che bisognava per andar a Molinella, restarvi un po' e tornare; e dissi:

– Amico di Moser, io tenterò di trovane questa somma. Ma… e se le irregolarità che lei teme non ci fossero?

Il curatore mi tese la mano e disse senza rispondermi:

– L'ingegner Moser, nella sua sventura, ha una grande fortuna: quella di avere un amico come lei…

Quando, giovani, io e Claudio andavamo a caccia in risaia ci accompagnava talvolta il Biondo falegname, divenuto poscia mio fittavolo. Come Claudio faceva ridere quell'omiciattolo, a proposito della mia filosofia! Ma chi avrebbe mai detto allora che un giorno io avrei dovuto ricorrere al Biondo, perchè Claudio scampasse dal Tribunale?

IX

E nello stesso giorno, partenza per Molinella!

Non era più per me, allora, un destino assurdo che in pochi giorni mi sbalzava da Berlino a Milano, da Milano a Valdigorgo, da Valdigorgo al mio piccolo paese nella pianura emiliana. Mi trasportavano volontà e coscienza: più forti anche del dolore, più forti anche dell'amore!

L'amore?.. Quale speranza poteva restarmene, ormai? La mia passione era stata una colpa e doveva avere il suo castigo. Ogni illusione doveva cedere alla realtà, che mi rinchiudeva, mi stringeva come in un cerchio di ferro. Il mio soccorso cancellerebbe nel cuore di Ortensia fin le ultime tracce d'amore, se vi rimanevano; ed io con l'azione che stavo per compiere confermavo irremovibilmente, per sempre, l'antico proposito di essere per Ortensia un fratello: non altro.

Ma è pur vero che il dolore aggiunge lume alla bellezza! Ancora ancora, avidamente, mi richiamavo l'immagine d'Ortensia alla memoria: più alta della persona; con quegli occhi che un tempo avevan solo un riso di gioia e adesso ardevan di sdegno o si velavano d'angoscia; con il viso un tempo pieno e roseo ed ora pallido e magro, ma come illuminato da una luce ideale: con le belle mani, che un tempo ella recava a sollevare dalla fronte l'onda dei capelli copiosi ed ora stringeva in uno spasimo di preghiera; con quelle attitudini decise, quei moti improvvisi, non più indizio come un tempo di un fervore di giovinezza sana e lieta ma reazione al tumulto di un'anima inferma, ma eccitazione di un'energia abusata fino alla violenza. In lei il patema d'animo aveva trovato una predisposizione nella delusione d'amore e nel male che io le avevo fatto col mio pessimismo, col mio tristo esempio, con la negazione d'ogni bene e d'ogni fede.

Le parole d'Eugenia mi si ripercotevano nel cuore e nella mente: «C'è una disperazione in lei…!» Ortensia non vedeva più intorno a sè che il male, a cui resisteva per naturale impulso ma col vuoto dell'anima…

Tali i pensieri che mi accompagnarono più assidui nel viaggio da Milano a Bologna. Però il fine a cui tendevo sopravanzava di tratto in tratto. Riuscirei? Ero sicuro che il Biondo teneva in casa grosse somme; mi ricordavo di quante volte egli aveva manifestato diffidenza delle banche e dei cassieri, e chiedendomi consigli intorno al miglior modo d'investir capitali, aveva espresso avversione a ipoteche o a prestiti d'altro genere.

Ma con il timore di mettere in pericolo i suoi risparmi e perder la tranquillità, c'era in lui, per di più, la preoccupazione di nascondere al prossimo il vero stato delle sue finanze. Confesserebbe il Biondo di posseder in casa quanto andavo a chiedergli? Non gli parrebbe di confessarmi che dall'affittanza aveva ricavato ciò che negava con le lamentanze annuali? E se egli non voleva darmi, o se veramente non aveva disponibile l'intera somma, che mi bisognava fare? Basterebbe per il resto una cambiale con le firme di me e del Biondo? A chi rivolgermi altrimenti?

Dubitavo; eppure anche questi dubbi non mi abbattevano; la speranza mi inanimiva, e m'immaginavo di veder salvo Moser e Roveni sconfitto.

… Quando finalmente, a Bologna, ebbi lasciato il treno più rapido per quello che mi trasporterebbe a Molinella, e quando nel freddo e tetro pomeriggio m'approssimai al luogo ove nacqui, invece della mestizia dell'esule che ritorna dove sa di non trovare più nessuno del suo sangue, provai, questa volta, un senso di conforto ineffabile.

Con occhio tranquillo guardai, giungendo, a quel po' di terra che fra poco non sarebbe più mia; e con sguardo affettuoso cercai la mia casa, la vecchia casa appartata dal paese e dalla via maestra e indicata da pioppi fedeli. Il Biondo, me la lascerebbe, la mia vecchia casa paterna; io serberei in essa l'ultimo asilo.

Lo sorpresi, il Biondo, mentre nell'ampia cucina stava piallando un'assicella; e la moglie, seduta al focolare, filava in cospetto del gatto. Bisogna sapere che da quindici anni, da quando era divenuto mio fittavolo, il Biondo non esercitava più il mestiere del falegname ma aveva conservato affezione alla sega e alla pialla per un alto ideale: la carità dell'infanzia morta. Nelle ore, cioè, nelle quali non doveva andare al mercato e per i campi con l'invidiata carrozzella, riprendeva il mestiere di San Giuseppe e se la passava a fabbricar piccole casse da spedir angioli in Paradiso! Il Signore domandava un'anima d'infante? E il Biondo regalava la cassa. Egli si consolava in tal modo d'essere invecchiato senza figliuoli.

Al mio entrare in casa, all'improvviso richiamo, gli occhiali dal naso del Biondo caddero sul banco; e la rócca non si lasciava svincolare dal fianco della Rita (soprannominata Pulicreta per lode di pulizia). La Rita gemeva: – Gesù, chi si vede! – Io vedevo loro due sempre più invecchiati, ma sani e contenti; il marito con la berretta verde divenuta gialla e spelato il fiocco; con le anelline alle orecchie, la faccia paffuta, le palpebre cadenti, pesanti come foderate di prosciutto, e, sul pomello destro, i due bottoncini vermigli come coralli; la donna grinzosa, con le vene grosse quali corde alla gola e alle mani e i bianchi capelli ben pettinati. Sempre rispettoso, il Biondo intonò il solito: – Laus Deo! Ben tornato, padroncino! – E la moglie ripetendo: – Com'è bello! com'è arioso! – , si asciugava col dorso della mano un gocciolone all'occhio destro.

Furono spalancate le finestre della mia camera dal letto immenso; della camera di mia madre, sempre fredda da poi che rimase priva di quella voce; della camera da desinare, dipinta a righe bianche e azzurre che il tempo non discolora…

– Chissà che freddo là, nei paesi di dove viene! – mi diceva la Pulicreta facendo fuoco al caminetto.

– Il signor Claudio è da quelle parti anche lui? – domandava il Biondo; perchè essi non sapevano dimenticarsi di Moser, il quale non avevano più visto da quasi vent'anni e del quale mi richiedevano ogni volta tornavo a casa. Era uno dei loro ricordi più cari.

– È sempre quel bel matto allegro?

La domanda del vecchio suggerì a me stesso un'altra dimanda: dove fosse in quell'ora e che cosa facesse il povero Claudio. Al Biondo risposi:

– Adesso Moser è in guai.

Ma a me che cosa potevo rispondere? Ah! ogni risposta che mi diedi quant'era lontana dalla crudele verità!

Ecco che cosa faceva Moser a Valdigorgo quello stesso giorno, nella stessa ora.

Convinto che Eugenia s'illudeva sperando nella mia visita al curatore; convinto che il curatore non m'avesse rivelato il pericolo che lo minacciava; vinto dalla certezza che Roveni l'aveva tradito e che egli doveva pagare il fio della frode commessa da Roveni, egli, Claudio, meditava di fuggire! Commettendo i brogli Roveni aveva ben provveduto al suo scampo: allo scampo di lui chi poteva provvedere? La legge, in nome della Giustizia, sovrastava su di lui responsabile; e dinanzi all'accusa che varrebbero le attestazioni di buona fede? Sperare in Sivori? Ma dove avrebbe trovate ventimila lire, Sivori, dalla sera alla mattina? Sivori apprenderebbe, impotente, che Claudio Moser era accusato di frode e che si leverebbe contro di lui mandato di cattura! Moser in carcere: Moser in Tribunale, a esser condannato per ladro!

E Claudio in quel giorno raccoglieva tutta l'energia della sua fibra per resistere alla disperazione. Disonorato in Italia, lavorerebbe altrove, sconosciuto, per risparmiar la fame alla sua famiglia. Ma in Tribunale no: morire piuttosto! E in quell'ora Claudio con uno sforzo che non valeva a nascondere la disperazione, cercava persuadere Eugenia che gli era necessario partire. Fuggire! Intanto Ortensia udiva la voce di lui, udiva il terribile silenzio della madre!..

No: io non potevo immaginare ciò che accadeva a Valdigorgo mentre il Biondo e sua moglie chiacchieravano, mi colmavano di notizie paesane, e io stentavo a non abbandonarmi alla stanchezza del viaggio e provavo la tentazione di un riposo dolce quale non mai, quale di una tregua a una dura battaglia.

Poi il discorso del Biondo si rifece alla solita antifona: la popolazione che cresceva e la miseria che cresceva.

E il socialismo con gli scioperi? E le malattie? Tifo e pellagra; tanto che in paese c'era gran malcontento perchè non prendevano un altro medico; e ci voleva proprio un medico di più…

Finchè mi riscossi. Ordinando alla donna di prepararmi subito un po' di cena, attesi ch'essa trottarellasse via per dire al vecchio:

 

– Biondo! Prima di partire…; parto stasera stessa…; ho bisogno… di vendere il podere!

Credo che egli fosse stato sempre dell'opinione di Claudio: che la filosofia una volta o l'altra m'avrebbe rovesciato del tutto il cervello; e a ripensarlo quale rimase alle mie parole, ora credo s'accertasse, di colpo, che questa volta era la buona. I grossi coralli che gli abbellivano la faccia divennero paonazzi, simili ai bargigli di un tacchino in amore; le palpebre, così grevi che pareva impossibile uno sforzo bastevole a sollevarle al di là della metà degli occhi, si alzarono in modo da scoprire due occhi enormi, quali nessuno avrebbe mai supposti; e per lo sforzo di sollevare quelle cateratte, e per il terrore del colpo ricevuto, la bocca gli rimase aperta ma senza voce. Parlai io.

– Debbo partire con i quattrini in tasca, questa sera. Capisci?

Allora il buon uomo mi scorse in volto una risoluzione e, nello stesso tempo, un'attesa penosa più di qualsiasi indizio di demenza. Impaurito più per me che per sè, calò le ribalte e chiuse la bocca dicendo:

– Cos'è successo?

– Debbo versare domattina, a Milano, ventimila franchi; e vendo il fondo.

Fosse la risposta che non del tutto a tono potè significargli poca confidenza, o fosse il dubbio che per quella misteriosa disgrazia io vendessi il podere lì per lì a un altro, il vecchio cadde a sedere, smorto anche nei bargigli e guatò intorno, quasi il compratore potesse nascondersi in qualche parte là dentro, o stesse per entrare dall'uscio, o dalla finestra.

– Vende…; a chi?

– A te!

– A me?!

Respirò, sollevò le palpebre a due terzi dell'altezza normale, e si cavò la berretta per ringraziarmi dell'onore. Ma disse piano:

– E il cumquibus?

– L'hai! O mi darai, per adesso, tutto quello che hai in casa. Ma bada! È un affare. Se non ti conviene, il fondo resta tuo, per questa obbligazione (e gli porsi la scrittura in carta bollata)… resta tuo solo fino a quando avremo trovato un altro compratore.

Avevo parlato quasi duramente; ma aggiunsi abbastanza commosso:

– Son ricorso a te perchè son certo che non mi strozzerai; e poi perchè non vorrai portarmi via la casa dove è morta mia madre.

Speravo fosse questa, la via che affrettasse il fine della mia impresa.

Ma a quell'attestazione di stima e a quel ricordo il Biondo temè di commuoversi troppo e senza più muovere difficoltà sul cumquibus tolse dalla busta gli occhiali; li mise; li levò per tabaccare, prima, liberamente; li ripose all'estremità del naso; e lesse o mostrò di leggere l'obbligazione mentre, a pausa a pausa e con le cateratte giù, diceva:

– Quel che posso fare lo farò volentieri per lei! Non me la scordo io quella buon'anima di sua madre… E io, morta la mia donna, chi ci ho al mondo? Chi mi resta? (Non dubitava affatto che la Rita morirebbe prima di lui). Nessuno del mio sangue, mi resta; solo un nipote della donna, che farebbe patto col diavolo perchè morissimo d'accidente – salvo il rispetto – tutt'e due in una volta.

Ma a ridargli l'intero dominio di sè e la debita ponderazione ossia lentezza a trattar l'affare, occorse l'intervento della Pulicreta; la quale annunciava che la cena era pronta.

– Lasciateci stare quando si discorre d'interessi! – rimbrottò il marito, dimentico che l'affamato ero io e non lui. E s'addentrò in un lungo ragionamento, protestando anzitutto che – salvo il rispetto – i quattrini sono sempre quattrini, e proseguendo a contare le tornature del campo, e a stimar il prezzo delle tornature, e a sommar il prezzo totale, e a rifare e correggere quel benedetto totale.

– Nel valore del fondo c'è o non c'è la capienza per la somma che ti chiedo? – feci io, impaziente.

C'era e non c'era. I socialisti per un verso, le stagioni, che non son più quelle, per l'altro, deprezzavan la terra, laggiù… Poi, a dir la verità, chi avrebbe comprato il campo senza la casa padronale, con la casa del contadino che non stava più, dritta? Finalmente, dopo più prese di tabacco e vani tentativi di rialzar le palpebre:

– Per me… ecco… sissignore!.. il fondo li vale ventimila franchi… Ma come l'intenderà la donna?

Non avevo pensato che ci fosse da persuadere anche lei… la Rita, perchè anche lei aveva parte nel cumquibus. Il Biondo s'alzò tabaccando; andò fino all'uscio; tornò:

– Alla donna io non ci penserei nemmeno! Fa quel che voglio io! Ma… e il nipote?.. quel brigante di suo nipote?

Anche questa! Era necessario anche il consenso del brigante?

– Altro che consenso! Se impara che abbiam comprato il fondo, ci dà il veleno, come è vero Dio in croce, per far l'eredità! È il nostro tormento: vagabondo, giocatore…

Tranquillai il vecchio assicurandolo che la vendita resterebbe segreta e giurai, per di più, che morivo di fame e che morirei di fame piuttosto che cenare prima che l'affare fosse concluso. Egli uscì.

Intanto, in quell'ora, che cosa accadeva a Valdigorgo?..

L'appresi mesi dopo…; e come sarebbe stato meglio non l'apprendessi mai!

Mentre Ortensia, dietro la porta, ascoltava suo padre, che tentava persuadere Eugenia a lasciarlo partire – fuggire! – , Eugenia pensò che la ferrea fibra di Claudio fosse anch'essa piegata, infranta; anche la mente di lui fosse travolta in una disperazione che ne velasse la percezione della realtà. Essa ebbe come il presentimento che quella fuga sarebbe un doloroso e vano errore, e si provava a dissuadere il marito.

Questi, al nuovo ostacolo, abbandonò, per superarlo, il freno a cui si era tenuto pietosamente, e, affranto, rispose rivelando tutto: che non si lascerebbe nè arrestare nè processare nè condannare. I singhiozzi gl'impedirono di compiere la minaccia: che piuttosto morirebbe.

Allora Ortensia precipitò nelle braccia del padre. Lo pregava, lo scongiurava ad attendere facesse lei un ultimo tentativo.

Quale? con chi?

Con Learchi! Ancora lui, solo lui avrebbe potuto risparmiar l'onta, la morte?

Oh c'era un altro! Ma Eugenia sollecitò la figliuola:

– Sì! Va tu, con Mino!

Da prima Claudio si oppose; quindi, o perchè in quegli istanti fosse come il naufrago che s'appiglia a un fuscello, o perchè non gli reggesse il cuore di dire addio alla figlia e al figliuolo, parve accondiscendere.

Con tutto l'impeto, l'eccitazione del suo dolore, Ortensia condusse seco per mano il fratellino e si presentò con lui a Learchi.

Avrebbero impietosito un sasso; ma neanche l'innocenza di Mino, che piangeva, tra le braccia della signora Redegonda, intenerì quell'uomo.

Rispose:

– Nulla da fare; lasciamo andare!

E allora… (quel che io provo scrivendo questo!), allora Ortensia… Ortensia s'inginocchiò dinanzi a quell'uomo! Ortensia a mani giunte, in terra, come dinanzi a un dio!.. Egli ripeteva, con la pipa, in bocca: – Nulla da fare!

E dava consigli: – Lasciate correr l'acqua per il suo verso… Quando la matassa è tutto un imbroglio, il meglio è tagliare. – Tagliare! Meglio era per lui, il processo, il disonore, la condanna!

Ma Ortensia, esasperata dall'umiliazione, si rialzò, fuggì per rivedere, forse per l'ultima volta!, suo padre… Il padre non c'era più! E un pensiero atroce attraversò la mente della figlia, intanto che la madre diceva a Mino: – Preghiamo Dio, se gli uomini non ci ascoltano…

… Nello scrittoio del suo studio Moser da anni e anni teneva un revolver, che Ortensia aveva veduto più volte. Ella corse nello studio… Il revolver non c'era più!

Fuori di sè, la misera tornò da sua madre; allontanò Mino; poi confessò tutto, a voce rotta: confessò che mi aveva amato, che per me aveva respinto Roveni, che odiava Roveni e che per salvare il padre doveva cedere a Roveni! Disordinatamente ripeteva quel che Roveni le aveva detto, le aveva scritto; dimandava alla madre in che modo dovesse telegrafare… – Sarebbe sua – purchè egli le salvasse il padre!

Eugenia, la debole Eugenia, per un istante si sentì attanagliata dal dilemma: o il disonore del marito, o il sacrificio della figliuola…

Ma la fede sorresse ancora quella debole donna. Accarezzava, baciava la figliuola per quietarla; le ravviava i capelli su la fronte e le diceva, sublime: – Tuo padre è onesto e la sua onestà trionferà presto o tardi! Tu non devi essere di chi usò questi mezzi per possederti!

Ah! Ortensia non cedeva; gemeva: suo padre era partito con un'arma!.. Eugenia sollevò gli occhi al Cielo, ad attingere il supremo coraggio, e rispose sicura:

– Dio tratterrà la sua mano!

Contemporaneamente io, laggiù, sentivo il tempo volare attendendo il Biondo; e me l'aspettavo con un pacco di biglietti di banca, e mi chiedevo, sempre più ansioso, quanto mi mancherebbe a compier la somma necessaria.

Con un sorriso tra i peli delle palpebre semichiuse e a fior delle labbra rase il Biondo venne alla fine, seguito dalla Pulicreta.

Ella brandiva la rócca quasi ad attestare che non vi rinuncerebbe sebbene fosse divenuta proprietaria, e stordita dall'avvenimento non sapeva se dovesse rallegrarsi della compera o affliggersi perchè era già fredda la minestra.

– Mi scuserà – disse il Biondo – se le ho fatto perdere la pazienza. Cosa vuole? Sono avvezzo a far tutto adagio!

Esclamai, allegro:

– Il tuo difetto! Se non ci avessi pensato su tanto, adesso avresti una dozzina di figliuoli. È vero, Rita? – Essa rise; ridevano ambedue… Ma, e i quattrini?

– Zitto! – fece il Biondo. – Venga di qua con noi.

Mi condussero nella loro camera; e dopo essersi battuta entrambi la punta del naso coll'indice, tesero la mano sotto il talamo… Misericordia! Che vista! C'eran due casse da morto; non di quelle piccole, per angioli; ma grandi, per due grosse creature com'erano proprio la Pulicreta e il Biondo! Eran due belle casse di noce: senza, dubbio i capolavori del Biondo. Ne trassero una in mezzo alla stanza… Ivi stava il morto provvisorio.

– Zitto! – ripetè il vecchio – : che nessuno lo sappia! Ci fidiamo di lei; se no, ci ammazzano!..

– Per l'amor di Dio! – aggiunse la vecchia.

Aprendo, la cassa appariva vuota; ma il Biondo l'aveva costrutta a doppio fondo e nel fondo segreto era il morto: pacchettini di biglietti di banca, nuovi nuovi; oro, argento, e anche cedole al portatore… Uno spettacolo tutt'altro che funebre! Basti dire che tolto quel che mi abbisognava, vi rimase abbastanza da non rendere inutile il doppio fondo della cassa.

– Zitto, per carità! – Ridevano sommessamente.

Ridevamo tutti e tre, proprio come se io fossi stato un loro figliolo a cui avessero fatto sì bella improvvisata.

Solo alla terza volta che rifece il conto della somma il Biondo spalancò le cateratte per veder bene il passaggio repentino di quella parte di sè stesso dalle sue alle mie mani; nè potè trattenere un sospiro.

Ma la cena fu gaia. Forse da un pezzo i vecchi coniugi non avevano cenato con cuore così pieno. Si comprendeva, a veder in che modo mi guardavano, l'una di sottecchi e l'altro di sotto le ribalte, che il merito di quella gioia era mio.

Quando fui per partire il Biondo mi trasse in disparte:

– I quattrini… sono per il signor Claudio, è vero?

X

Lieto che io avessi mantenuta la parola, il curatore mi accertò che nessuno potrebbe più mettere in dubbio l'onestà di Moser e che con l'arma a doppio taglio, preparata a strumento della sua perfidia, Roveni non potrebbe più ferire che sè stesso.

– Mi dispiace di non poterlo denunciare! – disse. – Le ha saputo far così bene, quel birbante! Ma se non avesse un documento che lo salva!..

«Sfuggirà anche a me?», io pensavo uscendo, verso il mezzodì, dallo studio del curatore. Prima di tutto però volevo veder Guido; dargli e ricever notizie. Quand'ecco, fatti pochi passi, m'incontrai… Immaginate in chi! Nel cavalier Fulgosi!

Era stupendo nel ricco e lungo paletot; con un colletto così alto che pareva averlo ereditato da suo figlio, e la cravattina a tinte scozzesi, e i guanti gris-perle; con i baffetti e la barbetta d'un biondo pallido pallido: l'uomo di spirito, avverso ad ogni tintura, aveva ceduto allo spirito della conservazione apparente. E l'uomo di mondo in una città cosmopolita non si confuse a vedermi: mi fe' un inchino alla francese, mi diede una stretta di mano all'inglese e improvvisò un complimento da italiano e patriotta:

– Il dottor Sivori è come Romagnosi: quando si direbbe che è morto è più vivo di prima!

Quale insigne opera meditavo? Quale nobile impresa mi aveva ricondotto in patria? Le risposte che gli diedi non l'impedirono dall'accompagnarsi meco e dal cadere, dopo pochi passi, in discorso di Moser. Sapeva qualche cosa, non tutto, della disgrazia; quel tanto che aveva appreso da Guido, con cui egli, sempre uomo superiore, era rimasto in buona amicizia nonostante l'inimicizia ch'era divenuta sempre più grave tra lui e il Learchi padre, ora sindaco di Valdigorgo. Soavemente compianse la «gentile» Eugenia, la «amabile» Ortensia, la «dolce» Marcella, e rievocò i bei giorni di Valdigorgo.

 

– Che bei giorni, eh, dottore?..; quando non pioveva…

Già: quel giorno che gli avevo dato dello sciocco, pioveva!

Ma il culto di così care memorie l'induceva a chiedermi un favore grande, memorabile anch'esso.

– Non mi dica di no… La mia signora sarà felice di rivederla! Mi faccia grazia… di venire a pranzo da noi, oggi.

Impossibile! avevo tante faccende!

– Lo credo, illustre amico; lo credo. Però dovrà pur rubarlo un po' di tempo alle faccende, per desinare: lo rubi, e me ne faccia dono.

– Impossibile! – ripetei duro come un tedesco.

– Non vuol oggi? Ebbene: domani!

Dàlli e dàlli; gutta cavat lapidem; e, come si usa in ogni paese per levarsi un peso d'addosso, finii per preferire l'oggi al dimani. Che peccato non fosse a Milano anche Pieruccio! Era partito, il dì innanzi, per Modena; di dove tornerebbe, fra pochi mesi, con le spalline.

– Ah le spalline e vent'anni! – sospirò il cavaliere allargando le braccia e invidiando suo figlio. Di suo figlio le donne andavan fanatiche anche al solo vederlo in divisa da collegiale.

– Si figuri che l'altra sera, all'ultima festa in casa De Mol…

Mentre narrava le figliali prodezze il cavaliere s'arrestava di tre in tre passi, compiacendosi che i suoi gesti oratori attirassero l'attenzione dei passanti. Tutti parevan chiedersi chi fosse quel signore elegante e nello stesso tempo austero. Un senatore, così giovane? O piuttosto un deputato? O un presidente di Corte d'Appello, o un ex-ministro: un'eccellenza insomma? Ed egli diceva:

– … La giovine signora del colonnello… – Pieruccio era stato sul punto di sedur la moglie di un colonnello!

– Vede già la via per diventar generale – dissi io, indulgente.

– A proposito! – il cavaliere riprese. – C'era anche Anna Melvi in casa De Mol. Cantò deliziosamente… Si fa; si fa! è una ragazza che si fa! La lanceremo!.. E lei sa, dottore, che anche Roveni è a Milano? L'ho visto più volte, il bravo ingegnere.

Io m'affrettai a metter da parte il «bravo ingegnere» preferendo il minor male. Meglio discorrer della Melvi.

– Badi, cavaliere, che la Melvi è una ragazza pericolosa.

Un altro sospiro venne su dal cuore e dal colletto di quell'apparente Eccellenza. Quindi:

– On ne badine pas avec l'amour. Ma io mi occupo di Anna solo per l'amore dell'arte e per amore del mio paese. Ho la fortuna di alte relazioni, e la lanceremo: vedrà! – Aggiunse che non poteva invitarla a pranzo con noi perchè la sua signora – a torto, ve'! – ne era un tantino gelosa. Ma a questo punto un'idea attraversò la mente di Sua Eccellenza, che si fermò mormorando:

– A quest'ora ci dovrebbe essere…

– Chi? – esclamai io – Anna? Non voglio vederla! Intendiamoci!

– No, no – rispose egli. – Mi è venuto in mente che debbo vedere un'altra persona prima di déjeuner e mi rincresce lasciarla, caro dottore: a meno che ella non si compiaccia d'accompagnarmi sin qui all'Orologio. Due minuti…; due passi… Ci viene? Bravo! Quanto è gentile!

– È la mia strada – dissi, senza alcun sospetto.

Giunti al Ristorante dell'Orologio, Fulgosi mi lasciò sulla soglia. Ma, appena dentro, si rivolse accennandomi d'entrare: – Scusi, dottor Sivori! – Quando gli fui presso, m'indicò, fra la gente, una persona seduta a una tavola e chiamò forte:

– Ingegnere!

Roveni si volge: mi vede e resta immoto a guardarmi, mentre io resto a guardarlo; e il cavaliere ride, felice della bella improvvisata che mi ha fatta; solo non comprende il perchè io e Roveni non ci salutiamo, non accorriamo l'uno incontro all'altro; e precipita lui alla conclusione.

– Senza complimenti, ingegnere! Oggi lei è invitato a desinare da me, con l'illustre…

Avanzando, io interrompo l'uno per dire all'altro:

– Ingegner Roveni! avrei bisogno di parlarle entro oggi, in libertà; senza testimoni. I testimoni, se mai, li troveremo poi!

Egli risponde, pallido più di me, corrugando un po' le ciglia:

– Sta bene! Fra un'ora, allo studio dell'ingegner Salghi, viale Monforte, 5. Saremo soli.

– Sta bene – io ripeto; e col capo fo segno al cavaliere che mi segua.

Fulgosi era sconvolto in modo indefinibile; dava l'impressione di un uomo, e un uomo superiore, denudato all'improvviso là in mezzo a tutta quella gente che faceva colazione.

Come quando una repentina bufera agita, piega, rovescia un arbusto fiorito, sì che ne vedi il fusto brullo e le branche spinose, e i fiori e le fronde esterne sembrano vanità in balìa del vento, io vidi allora tutta l'intima povertà del cavaliere in quel fallace rivestimento d'eleganza e di rettorica. Mi seguiva tacito, a capo chino nonostante il puntello del colletto, e pareva attendersi l'ultimo sconquasso. Non gli diedi dell'imbecille: gli imposi di non riferire ad anima viva il mio incontro con Roveni e rimisi a miglior occasione l'invito del pranzo. Dopo tutto gli dovevo gratitudine, perchè, mercè sua, affrettavo la risoluzione che mi premeva.

E mi recai da Guido come avevo divisato. Ma se nella bufera il cavalier Fulgosi scopriva miseramente sè stesso, Guido Learchi vi smarriva interamente sè stesso. Gli affanni in Guido erano fuori di posto; lo svisavano, e la sua faccia gioconda cedeva a impronte quasi di un dolore fisico acuto, straziante; per esempio di un atroce dolor di ventre. Finchè aveva potuto ripetere a se stesso: speriamo!, e immaginar prossimo il ritorno a una beata pace famigliare, egli era riuscito a illudere anche la sua Marcella e a mantener aperta la vena del buon umore: sopravvenuto l'evento a cui non trovava rimedio nel suo ottimismo e nella sua immaginazione, mi si presentò nell'aspetto tragico, alla sua maniera.

– Che è successo di nuovo? – esclamai io, davvero atterrito.

– Zitto! per carità!..

Marcella indovinava una nuova disgrazia, e lui, con quella faccia, non sapeva più che cosa darle a credere.

– … che Marcella non ci senta!

Poi con un fil di voce e le braccia penzoloni mi annunciò: – Moser… è scappato!

Il mio telegramma da Molinella era giunto a Valdigorgo troppo tardi. Invano Eugenia aveva sperato che avvertendo Guido, Guido giungesse in tempo di veder Claudio al suo possibile arrivo a Milano, prima che prendesse altro treno… Nè si sapeva che via avesse presa.

XI

Successione così precipitosa di avvenimenti e di fatti comprendeva fors'anche, per me, la corsa alla morte? «Altro il parlar di morte, altro il morire», diceva a dritto e a rovescio il signor Learchi sindaco di Valdigorgo; eppure io, attendendo l'ora del colloquio con Roveni, parlavo a me stesso della morte ben diversamente da quando l'apprensione di essa annientava in me la vita, e mi pareva di esserci preparato con animo sicuro e freddo. La notizia della fuga di Claudio mi accresceva il fastidio di un destino avverso; accresceva l'odio che mi sospingeva contro Roveni. E Ortensia non mi amerebbe mai più come io l'amavo; e all'amicizia avevo già pagato il mio debito. Dunque?.. In un duello a pistola non m'era difficile immaginare che Roveni colpisse me come alla fabbrica aveva colpito nella carretta. Era stato, quello, un ammonimento molto preciso…

Morire! «Quali dolci sorprese ci prepara la morte?» Credetemi: queste parole di Pascal mi suonavano ora all'orecchio con invito più dolce che quello d'andar a pranzo dal cavalier Fulgosi. Anzi! Un'impressione strana provavo, quasi di lungo soffrire che riceverà lenimento, o quasi di un amante che sarà appagato dopo lunga attesa… Certo, poteva anche accadere che io ammazzassi l'avversario; poteva accadere quel che accade più spesso, che restassimo incolumi entrambi; ma, ad ogni modo, bisognava far sul serio!

A Milano non ci avevo molti amici. Deliberai, alla fine, che ricorrerei a due antichi compagni di scuola miei concittadini; l'uno ufficiale, che mi avevan detto di stanza a Milano; l'altro che sapevo esservi giornalista.