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In faccia al destino

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(Anche Learchi padre, dunque, ci si opponeva!)

– Una scena, mio caro! Marcella ha pianto tanto! Ma, francamente, quella ragazza è così apprensiva, così… fantastica! Esagera tutto… Uf! Non nego, io, che debban essere in angustie, lassù! Ma… Siam sempre lì; che ci si guadagna ad angustiarsi?.. Bevi, Sivori!

Invece di bere io chiedevo altre spiegazioni.

– Se andassi tu a Valdigorgo? – disse Guido. – Ti chiariresti di tutto; faresti bene; li consoleresti.

Marcella rientrava; e il marito, a voce alta, perchè ella non si adombrasse, die' una svolta al discorso.

– Anche in commercio ci vuol fortuna! Ecco tutto! Come in medicina. Vedi? io non conosco medico più sfortunato di me! I miei clienti si spiccian tutti in pochi giorni: o di là, o di qua; a gran velocità guariscono o muoiono. Merito mio? Ma che! Io anzi avrei bisogno di quei bei casi che durano mesi e mesi; non tanto per imparare, s'intende, quanto per diminuire i sospiri e i vaglia di mia madre. Eppure, sfortunato come sono, non mi dispero io!

… Esortai Marcella ad ascoltare la sana filosofia di suo marito e le promisi che l'indomani sarei andato a Valdigorgo. Marcella mi ringraziò più con gli occhi che con le parole.

VII

Mentre la carrozzella mi trasportava dalla stazione di Valdigorgo a Villa Moser, poco dopo il meriggio, io cercavo prepararmi al penoso incontro con Claudio e all'incontro desiderato e temuto con Ortensia.

Dagl'ingarbugliati discorsi di Guido non avevo chiaramente compreso quel che potessi fare a pro di Moser; tuttavia avevo inteso abbastanza da rammaricarmi di non esser ricco e di non poter rendere il mio intervento ben più profittevole. Se io avessi consumati gli anni migliori della mia giovinezza a guadagnare, Claudio ora non sarebbe stato alla mercè di amici venali! Invece ero vissuto quasi soltanto con il reddito del podere de' miei vecchi, affittato al Biondo; uomo onesto ma non abile forse a trar dalla terra tutto il frutto che poteva dare. Vendendo quel po' di roba, che mi resterebbe? La professione che avevo non curata sempre; ripresa da poco per disperazione o per necessità! Immaginare se Claudio permetterebbe simile rinuncia! Ma al pensiero di Ortensia cedeva ogni difficoltà: per risparmiarle dolore affronterei anche la miseria, con o senza il permesso di Claudio!

La strada dilungava cinerea sotto il cielo caliginoso; non incontravamo che qualche birocciaio intabarrato fino al mento.

Nei campi non c'era neve; appariva scoperto il tenero e pallido verde del grano tra gli alberi scheletriti. Lembi di neve restavano qua e là sul dosso dei monti, svelati solo di tratto in tratto; e la nebbia fumava contro le oscure moli con pigre volute. Le case dei contadini, chiuse, deserte, parevano avvolte nel freddo. D'improvviso, in quella solitudine di morte, proruppero da un'aia e corsero alla strada, alcune grida di gioia e risate. Eran poveri ragazzi mascherati con maschere di carta e cenciose sottane di donna. E rammentai che eravamo agli ultimi giorni di carnevale, e mi si riempiron gli occhi di lagrime. Quella gaiezza puerile, quasi insorgente a dispetto dello squallore e della tristezza che desolavan la campagna tutt'intorno, mi rattristò più che se avessi intravvisto un festoso spettacolo di gioia, perchè riebbi nella memoria il contrasto d'altre grida gioiose e d'altre risate: di giorni pieni di sole e lieti di verde e di fiori, quando Ortensia era ragazzetta felice… lassù.

Come la rivedrei ora?

Con che palpiti scorsi, da lungi, la villa! Un raggio di sole finalmente aveva rotto la nebbia proprio là perchè io la vedessi da lungi!

Ma quando arrivai mi sorprese che nessuno si facesse vivo. Mi era immaginato di vedermi subito accolto da Claudio, da Ortensia: invece un nuovo e umile servo tardò a venire al cancello.

Ecco un primo contrattempo: Moser non c'era; era partito la mattina per Milano..

– La signora? La signorina?

A stento il servo acconsentì a introdurmi nella bella sala a terreno; ora gelida. Ma tra la cima degli abeti il sole riapparve, dalle vetriate, nel giardino… E d'improvviso una delle porte laterali s'aperse: Eugenia.

– Lo sapevo che Sivori non ci avrebbe abbandonati! – Furono queste le sue prime parole. Io, per prima cosa, mi avvidi che quella donna così patita e debole nell'aspetto, con molti capelli bianchi, con le guance scarne, conservava e manifestava negli occhi una meravigliosa forza; la fede le diceva: «Devi sopportare e soffrire; e ne avrai bene per te e per i tuoi!»

– Voi non ci avete abbandonati nella sventura – ripetè; e mentre io stringevo e tenevo stretta nella mia la sua mano, aggiunse, chinando gli occhi:

– Una sventura forse irreparabile…

– Non lo credo. Sì riparerà; supereremo questa prova!

Tal sicurezza di parola e d'intenzione in me fece rialzare lo sguardo d'Eugenia; schiarì il suo volto, quasi s'accendesse di una nuova speranza non solo ma si compiacesse dell'energia nuova che io dimostravo. Proseguii lamentando di non aver trovato Claudio.

– Vi siete incontrati per viaggio.

– Mino?.. Ortensia?

– Mino è a scuola in paese; Ortensia è già avvertita: ora scende.

Per vincere e dissimulare l'impazienza narrai della mia visita a Marcella e a Guido, e affrettai dimande su quanto era accaduto.

La signora mi riferì che il più ostinato avversario al concordato dei creditori era il vecchio Learchi. Conoscendo bene costui, ormai Claudio non sperava più che nessuna cosa o ragione riuscisse a smuoverlo: era irremovibile, più che per altro, per il rancore del danno patito.

Lei, la povera Eugenia, appunto perchè persuasa essa stessa che nulla valevano su Learchi le buone ragioni, era afflitta del non trovare nessuno, non un amico, non un congiunto, il quale piegasse quell'uomo toccandogli il cuore.

– Il male è che tanta cocciutaggine gl'impedisce, a Learchi, di vedere qual è veramente il suo interesse. Se non si fa il concordato, perderà tutto; se si fa, non perderà che una parte del suo credito.

Io chiesi:

– Siete certa di questo?

– Claudio e il curatore ne sono convinti.

Dunque all'ostinazione di un uomo così esoso doveva esserci un incitamento segreto; qualche cosa o qualcuno l'acciecava! Dimandai anche:

– Ed è vero che la disgrazia si sarebbe evitata se Learchi avesse consentito a comporre la società?

– È vero.

– Chi l'ha acciecato, dunque? – esclamai. Eugenia intese a chi alludevo, ma scosse il capo.

Io insistetti apertamente:

– Roveni?

– No, non credo che arrivi a questo punto. Learchi è acciecato dalla rabbia; non ha più fiducia in nessuno…

Forse la buona donna difendendo Roveni difendeva Ortensia?

E Ortensia tardava. Perchè tardava così? Non avrebbe dovuto accorrere come per un'attesa improvvisamente interrotta e non delusa? Non le avevo io detto che sarei tornato a lei il giorno della sventura?

– Però al dire di Guido – io ripresi – anche Roveni è stato od è ingrato con chi gli ha fatto del bene.

– Purtroppo anche lui ci è diventato nemico, per interesse; non per altro. Sarebbe una cattiveria troppo grande! Sapete che colpa fa a Claudio? Claudio si teneva certo che si farebbe la società, e un giorno che aveva un pagamento urgente, non potè rifiutare una somma che Roveni stesso gli propose. Ma il progetto della società andò a monte; e Roveni adesso dice che Claudio l'ingannò.

– Di quanto è creditore, Roveni?

– Duemila lire.

Povera Eugenia! Non altra ragione per lei aveva l'odio dell'ingegnere! Ma io, che tanta stima. avevo avuta di lui un tempo, io ora pensai che per un meditato fine di vendetta egli doveva aver proposta la piccola somma a Claudio.

In quel punto la porta laterale fu riaperta d'impeto. Ortensia s'arrestò su la soglia quasi pentita di un errore, quasi cessasse d'un tratto lo sforzo che l'aveva spinta di corsa fin là. Un istante; poi s'avanzò risoluta verso di me, che le andavo incontro.

– Come sta?

Non risposi. Ogni mia dissimulazione cadde; non potei nasconderle la violenza del mio cuore. E le sue labbra tremavano e il color roseo che le era corso alle guance disparve. Imbarazzata al mio imbarazzo, Ortensia attendeva ansiosamente che io togliessi lei pure di pena. Il pensiero che Eugenia ci guardava, mi sospinse; mormorai:

– Cara Ortensia!

– Questa bambina è forte – Eugenia disse mentre ci riaccostavamo a lei; e la trasse a sè e ne raccolse il capo sul petto a mo' di una volta. Ma quando rialzò il viso, Ortensia mi apparve spaventosamente pallida; la vidi mordersi le labbra prima di parlare, per contenere la commozione; e parlando fissò su di me uno sguardo profondo. Io non mi sentii mai così debole come in quegli istanti, sotto quello sguardo prepotente. Non era un'accusa; era una condanna!

– Glielo dica anche lei, Sivori, alla mamma, che non bisogna affliggersi tanto. Piangere perchè non siamo più ricchi! Non è una sciocchezza? – Anche nel tono della voce c'era un'acerbità, un'asprezza, quasi ostile. E un velo oscurò quel fervido sguardo. Non era in lei la semplice concitazione del parlane; non era più la commozione protratta dal rivedermi: l'agitava un'eccitazione nervosa; si premeva con una mano al cuore.

Risposi ricuperando del tutto me stesso e rivolgendomi a Eugenia:

– Le cose non sono certo al punto che il timore vi fa vedere e che io non vedo. Moser è tal uomo che in ogni caso saprà riparare. Intanto la stima dei buoni sarà cresciuta per lui.

– I buoni? – Ortensia esclamò stupita di udir questo da me. Con sguardo di nuovo ardente, iroso, aggiunse: – Oh dove sono i buoni? – Poi sorrise di un sorriso che io ben conosceva, che avevo sol visto fugacemente sulle sue labbra, e che ora v'insisteva: il mio sorriso d'una volta!

– Un amico buono è qui – disse la madre.

A che la figliola, sforzandosi a non ripetere quel sorriso:

 

– Un'eccezione! La sola. Ma gli altri! Cattivi; tutti cattivi, perfidi, vili! – Aumentava ad ogni frase, ad ogni parola la concitazione violenta. – Si divertono a tormentar mio padre coi rimproveri, con le accuse, coi consigli! Ci compiangono! Oh la compassione di certa gente che male fa! Ipocriti!: godono del nostro male; ne sono felici; e ci compiangono!

– No, Ortensia… – mormorava Eugenia invano.

– E le promesse? «Vedremo; cercheremo; chi sa?; bisogna sperare!»; eppoi nulla. Non è un'agonia questa? Non sono atroci questi alti e bassi? Ora tutto piano, tutto liscio, tutto accomodato; ora tutto a monte, tutto perduto! L'ostacolo che pareva piccolo diventa enorme; una difficoltà da nulla diventa, un disastro! E tutti dicono, l'uno dell'altro: – Io vorrei aiutarlo quel disgraziato, ma non posso, e chi può non vuole.

– Non è un martirio? C'è da impazzire! Lo dica lei, Sivori, alla mamma ch'è meglio finirla, uscirne una volta, a qualunque costo!

Indovinavo che Ortensia, senza più speranza, cercava il mio aiuto per preparare la madre all'ultimo crollo. Io riflettevo. Ma nello stesso tempo, e pur così turbata, come Ortensia mi pareva bella! I capelli, sfuggenti al grosso pettine e diffusi, eran sollevati sulla fronte e la fronte bianca aveva un lume che non aveva avuto mai; il pallido viso dall'ovale perfetto aveva un lume che non aveva avuto mai! Bella di dolore, bella d'orgoglio!..

La madre taceva, a capo chino. Le chiesi:

– Se andassi io, ora, a tentar qualche cosa con Learchi?

Eugenia annuì; Ortensia, al contrario, scosse il capo come per un tentativo inutile; e la madre mi guardò quasi a dire: – Vedete?

Finchè ella trovò un pretesto perchè la figlia uscisse; e allora mi susurrò:

– Ortensia è forte, ma anche questa forza mi dà una pena! C'è in lei una sfiducia, un vuoto, una disperazione!.. Sembra disprezzare anche la sventura; ma come soffre!

Vinta, Eugenia, proseguì piangendo:

– La rimproveravo una volta perchè stava oziosa; adesso ricama, cuce tutto il giorno per imparar a guadagnare: mangia pane asciutto per prepararsi alla povertà!

La signora Learchi m'accolse quale un messo del Cielo. A esprimere la sua gioia, quasi non le bastasse il viso roseo e lucido d'inverno come d'estate e la bocca ridente quant'era larga, s'aiutò con complimenti strepitosi:

– Che miracolo! che improvvisata! che degnazione! che bella visita! – E trafelate scuse: la casa in disordine, lei vestita male, col raffreddore! Il raffreddore infatti l'obbligava a farmi festa sternutando.

– Innocenzo! Innocenzo! – invocava.

Il signor Learchi, nuovo sindaco di Valdigorgo (mi ero dimenticato di dirlo), se ne stava davanti al camino nella camera da desinare, pipando pensoso più di se stesso che de' suoi amministrati ed economizzando con le molle le brace che rimanevano del ceppo ormai del tutto consunto. Alle esclamazioni e alle apostrofi della moglie si mosse, mentre io entravo, e senza far parola depose le molle; si levò di testa con una mano il cappellaccio (un cappello fuor d'uso, estivo ma buono a riparare dall'umidità invernale, tant'era unto); emise un lungo oh! levandosi di bocca la pipa con l'altra mano, e m'attese seduto, non restandogli più mani libere da reggere le brache che si era sbottonate per far largo alla digestione.

– Vedete chi è qua, Innocenzo! – ripeteva la moglie. – Che onore! Chi se lo sarebbe aspettato, con questo freddo?

Il marito era così lontano dall'aspettarsi una mia visita che tardava a dissipar dal volto da beone l'ombra della improvvisa seccatura; e mi fu visibile lo sforzo che fece di ricoprirsi con la maschera di uomo cordiale.

– Il signor Sivori! – ruppe a dire finalmente. – Il signor dottore! Oh oh oh! Proprio vero che le montagne… Bravo! Sta bene?.. Un piacerone!.. Qui vicino a me, a scaldarsi! Senza complimenti!

– Si scaldi! – diceva, la moglie. – Si metta a sedere… Su, della legna, Innocenzo!

E il signor Innocenzo, ancora imperfettamente mascherato ma di nuovo col cappello in testa:

– Perchè non è venuto un po' prima? Avrebbe desinato con noi; alla buona… si sa, da montanari… come siamo.

– Redegonda! Presto!.. qualche cosa al signor Sivori, al signor dottore!

– Che cosa? – Ella correva intorno alla tavola, avanzava, retrocedeva domandandomi:

– Caffè? cioccolata? latte? cognac? un zabaglione? Le faccio un zabaglione? un vino brulè? un punch?

– Moscato bianco! – urlò il sindaco. – Il mio moscato bianco, che riscalda le budella: riservato per gli amici!

Quindi, dopo avermi lasciato un po' schermire:

– Lei non era a Vienna? Che c'è di bello a Vienna?

– A Berlino, vorrete dire! Era a Berlino! – correggeva la signora Redegonda, mentre usciva per la bottiglia e qualche altra cosa.

Sì, venivo da Berlino; ma già m'ero fermato a Milano…

A queste parole la Learchi ristette sulla soglia, con la bocca ridente e gli occhi sbigottiti, e tornò indietro quasi per soccorrermi.

– L'ha visto? Li ha visti? – Sopprimendo i nomi sperò di attutir lo sdegno che prevedeva.

Infatti il signor Innocenzo le volse due occhi rabidi:

– Eh! Aveva obbligo di vederli?

Forte e senza titubanza io rispondevo:

– Ho visto Guido, Marcella, il bimbo; una famiglia che consola a vederla…

Povero me! Sempre ridendo in silenzio la donna spalancò le braccia in segno di disperazione. Ma il sindaco riaccendeva la pipa per ingoiar l'ira.

– Bah! bah! – fece aspirando. – Altro è il parlar di morte, altro è il morire! A lei sembran consolazioni… perchè ha avuto giudizio, lei! Non ha voluto provarle, queste consolazioni… che costano! Mio figlio… povero imbecille… le ha pagate care… carissime!.. Ma lasciamo andare!; parliamo d'altro! Dunque, a Berlino bella vita, eh?

Per assecondarlo un po' dissi qualche cosa di Berlino nel frattempo che la sindachessa usciva e rientrava recando in braccio un vaso di ciliege nello spirito e la serva sturava la bottiglia e mesceva.

– Alla sua salute!

– Alla sua!

Lodai il moscato e subito aggiunsi (per cogliere quel momento di dolcezza) che tanta cortesia mi dava a sperar bene dalla mia visita. Entrando in argomento dissi che quale amico comune, di Moser e del signor sindaco, io ero venuto a sentire quel che si potrebbe fare…

– Caro amico: niente! niente da fare! – E allontanando la pipa il signor sindaco sputò. – Meglio non parlarne per non sputar veleno! M'han guastato il sangue. (Bevve). È amaro, per me, adesso, anche il mio moscato!

La signora Redegonda da dietro le spalle maritali traeva lentamente, ascoltando, le ciliege dal vaso con un cucchiaio e le deponeva in un piattello; e poichè non poteva impedire alla sua bocca di sorridere ancora, scuoteva il capo per significare come disapprovasse quel che il marito diceva e direbbe, e con languide occhiate chiamava il soffitto in testimonio del suo dispiacere; delle sue buone intenzioni; delle sue rinnovellate speranze nel mio intervento.

Io ripigliai: – Da Eugenia e Ortensia non ho avuto che notizie confuse; ma ho potuto comprendere il loro dolore perchè lei, che ha fatto tanto per Moser, debba essere o voglia essere sacrificato…

– Dolore? Ah ah! Ci vuol altro! Dolore! parole! Altro è il parlar di morte altro è il morire!

– Io credo si possa almeno attenuare le conseguenze…

– Parole, caro il mio amico! Parole! niente da fare! Meglio non parlarne…

– È vero o no – esclamai – che chi non vuole l'accordo dei creditori è lei?

– Io? – Parve cascar dalle nuvole brandendo la pipa – Vede?; vedete chi è che inganna? Ci prendon tutti per imbecilli… come mio figlio!

– Le senta…; – intervenne allora la Redegonda porgendomi il piattello delle ciliege.

– Lei dunque è disposto – proseguii rivolto al marito – a trattar dell'accordo?

– Io… Io dico, ripeto, torno a dire per l'ultima volta che non voglio più pasticci, non voglio avvocati e liti, non voglio curatori, non voglio crepare! Vogliono, quegli altri signori, il concordato? Mi diano una garanzia che tutto andrà liscio…; la garanzia che piace a me…; e son qua! Se no, vada il resto, vada tutto!.. Ci rimetto tutto… Che cosa pretendono di più? Che ci rimetta anche il sangue? la pelle? l'anima?

– E la garanzia che lei desidera sarebbe…?

– La garanzia dell'ingegner Roveni.

– Ma che garanzia può essere quella di uno che non possiede niente?

– Garanzia che non nasceranno altri imbrogli. Mi basta! Ma se non ci fosse questo pericolo, degl'imbrogli, Roveni la farebbe la garanzia! E non la fa! non la fa! non la fa!

Me la cantava in musica battendo il tempo con la pipa: – Non la fa!

Il mistero mi pareva chiarito del tutto; sicchè la Redegonda sorrise fino alle orecchie per la luce che mi vide in faccia; scosse, sorridendo, il capo, per assicurarmi che adesso ero su la buona strada; sternutò e si soffiò il naso; accennò coll'indice al piattello delle ciliege, e uscì piano piano, lasciandomi libero il campo alla vittoria. Procedetti:

– Il perchè Roveni non fa la garanzia è un altro! Non ha inteso dire anche lei, signor Innocenzo, che costui aveva pretensioni su Ortensia e che Ortensia l'ha rifiutato? È una vendetta! Si vendica della ragazza con la rovina del suo benefattore! Ecco che uomo è costui! E ha ingannato anche un uomo sagace come Innocenzo Learchi!

Due, tre copiose e formidabili boccate di fumo uscirono dalla bocca del mio interlocutore, in cui le ultime mie parole fecero un effetto del tutto contrario a quello desiderato. La lode di sagacia parve offenderlo più che l'accusa di essersi lasciato ingannare e, livido, stentando a frenar la rabbia con un ultimo sforzo di ipocrisia:

– Signor dottore… stimatissimo! – esclamò. – Lei è lei; ma se non fosse lei…!; con tutto il rispetto… Che storia mi tira fuori? Dica la verità: per chi m'ha preso? Per un imbecille come…

Rise sgangheratamente.

– Ah povero signor dottore! Come l'hanno imbottito bene! E lei ci ha creduto? Ha creduto che Roveni avesse intenzione di sposar una ragazza senza dote? Ah! Ah! E pensare che la ragazza non l'ha voluto lei! lei non l'ha voluto, Roveni! non lo vuole! Spera in un partito migliore, la ragazzina!.. Ah povero signor dottore!

Strappargli la pipa di mano e sbattergliela sul muso!

– Anche la signora Redegonda deve saperne qualche cosa – riuscii a dire.

– E io dovrei credere quel che han dato a intendere a mia moglie? Ah! Ah! Ma non lo sa che mia moglie è la madre di mio figlio?

Non ne potendo più, mi alzai.

– La verità è questa che le ho detta io! Lei non la crede? Ebbene: lei da tutti gli onesti sarà giudicato quale un complice di Roveni e avrà il rimorso d'aver messo in miseria i suoi parenti.

– Parenti, serpenti! – Ricaricava con mano tremante la pipa. – E i rimorsi… non li proverò io, caro amico; no no: stia pur sicuro! Io sono tranquillo! Non ho falsificato niente, io…; sono un galantuomo, io! un uomo onesto…

In piedi con la pipa in bocca il sindaco di Valdigorgo abbottonava i calzoni per congedarmi.

Allora l'investii domandando:

– Falsificato… che cosa? chi?

Ma egli retrocesse.

– Zitto! C'è mia moglie… Se vuol spiegazioni, si rivolga a Roveni… Io non so niente! Non voglio dir più niente! Non voglio saper più niente!.. Un altro bicchiere, e amici più di prima…

– Altre due ciliege – pregava, la signora Redegonda sorridendo, ma con voce di pianto, a vedere che avevo perduta la battaglia.

Non tutto era scoperto. Un'infamia mi restava da scoprire!

Ritornavo inveendo entro di me contro gli onesti che insultano impunemente all'innocenza e alla sventura, perchè fatti ricchi e potenti dalla fortuna e dall'abilità di commettere il male all'ombra della legge.

Ortensia mi venne incontro. Tacque a lungo poichè io le ebbi detto: – Non ho ottenuto niente per ora, ma…

D'improvviso si accese in volto.

– Com'è vile quell'uomo! Non capisce quell'uomo senza cuore, nessuno capisce che non è la miseria che ci spaventa? che ci son patimenti più grandi che la fame? Vili! Non conoscono mio padre! L'ammazzano! È un assassinio!

Io mi provavo a quietarla, turbato da quella sua alterazione; da quella violenza di passione manifesta per gli occhi più che per le parole.

– Quietati – le dicevo – ; riparto subito per Milano e qualche cosa so di poter fare! Il tuo dolore è santo – aggiunsi – ma non bisogna esagerare.

Ella sollevò in me lo sguardo affievolito da una infinita tristezza.

– Ah Sivori! anche per lei (si corresse), anche per voi esagero! Conoscete mio padre; sapete che dovrà abbandonare la sua casa (accennava alla villa), che era il premio di una vita di lavoro, che era il luogo dove voleva morire, dove nacquero i suoi figlioli; e io esagero! Mio padre non vuole abbandonarla la sua casa; non può credere di dover abbandonarla! Ieri mattina, con un operaio, nel giardino, disegnava nuove aiuole; diceva: – Quest'altr'anno leveremo i ligustri; pianteremo altri abeti nel prato. – Quest'altr'anno, diceva. Invece quest'altr'anno nuovi padroni raccoglieranno i fiori del nostro giardino; dormiranno nelle nostre camere. E io esagero! Quassù mio padre è stato un benefattore, ma gli operai, per cui faticava, non lo salutano più, lo incolpano della loro rovina… E io esagero! E questo è nulla! La colpa di tutto quello che è avvenuto e che avverrà, è mia! E io esagero!..

 

Come io cercavo parole di protesta, essa con mano convulsa m'afferrò a un braccio, mi fece ristare, e disse più piano, severa, in quell'agitazione contenuta con la fatica che esprimeva il suo sguardo fiso nei miei occhi:

– Sentite, Sivori! Voi siete sempre per noi l'amico di un tempo; siete per me quello di un tempo: un fratello. Non voleste così allora? Così doveva essere! Un fratello: non altro dovevate essere per me in passato; non sarete altro in avvenire… È vero?; così! Dunque, sentite! Se domani io potessi trar d'agonia mio padre, tutti noi, con una sola parola, e questa parola mi ripugnasse come una viltà, un'abiezione; se con una sola parola io domani potessi salvar la vita di mio padre, dovrei vincere la ripugnanza del mio animo, della mia coscienza, di tutto il mio essere, e pronunciarla, questa parola? Dite! dite!

– No! Mai!

– E se con questa sola parola io potessi salvare… potessi salvare l'onore di mio padre?

Risposi, freddo e sicuro:

– L'onore di Claudio Moser è al disopra d'ogni sventura e d'ogni vendetta!

Ma Ortensia sorrise con quella ironia quasi spasmodica.

– L'avete conosciuto bene, voi, Roveni! Credete che sia uomo da minacciare invano!

– Quando, come ti ha minacciata?

– Me l'ha detto… e scritto, che ha tanto in pugno da far condannare mio padre… per ladro! È lui, lui che non vuole che Learchi ceda perchè ceda io! Se io cedo, mio padre è salvo!

Ristette; congiunse, per scongiurarmi, le mani:

– O Sivori… Carlo… dite, Carlo…: sono ancora in tempo! Debbo cedere?.. salvar mio padre?

– Tu non gli avrai risposto… – Questo dubbio mi affliggeva più che non mi afflisse quella affannosa preghiera. – Non devi cedergli. Mente! È un'insidia!

– No… non gli ho risposto…; ma se arresteranno mio padre… come un ladro…; se lo condanneranno… per colpa mia… io morirò…

Si compresse con la sinistra al cuore; e aggiunse:

– Non è meglio finirla? Tutte le speranze in Learchi non sono perdute? Bisogna preparar la mamma, a tutto…

Riafferrandole la mano io, con un'attitudine che esprimeva, di me, la sincera e profonda commozione e la preoccupazione di un monito solenne: – Ortensia! – dissi – . Per tutto quello che hai sofferto, che ti ho fatto soffrir io; per il bene che voglio a te e a tutti voi altri; per tuo padre e tua madre, ti scongiuro: non t'abbandonare alla disperazione, così; abbi in me, ora, la fiducia che non meritai in passato. È impossibile che io non riesca a sventar le trame di un birbante, perchè è impossibile che tuo padre non sia stato sempre un galantuomo! Resisti; tu sei forte!

E dando alla mia voce, alle mie parole tutta la tenerezza e la dolcezza che potei attingere dal mio amore:

– Solo, tu hai il cuore di tuo padre. Bisogna frenarlo, questo cuore, che la bontà fa pulsare troppo in fretta… Mi prometti, sorellina, di confidare in me…; almeno un giorno o due…? Via! Riceverai la buona novella… Trionferà la giustizia; supereremo l'infamia di quell'uomo…

Non pianse; mi guardava stupita come non potesse credere alle mie parole e alla speranza che io dimostravo di esser creduto.

Poscia mormorò percuotendosi il cuore:

– Carlo! Carlo! non c'è più bontà qua dentro! C'è solo del male!

Io le accennai sua madre, che veniva verso di noi.

Le dissi, a Eugenia, che benchè Learchi mi fosse sembrato ostinato più di un mulo, il colloquio con lui mi aveva confermato nel proposito di recarmi subito dal curatore del fallimento.

Credevo d'aver trovata una via…; e altre bugie pietose dissi, per confortarla.

Ella esclamò rivolta a Ortensia:

– Vedi se bisogna sperane?

… Io ripartii senza avere in me la fede di Eugenia. E mi seguiva lo sguardo di Ortensia: lo sguardo di una vittima.

VIII

Il mio colloquio con il curatore del fallimento fu breve. Il ragioniere *, a udirmi amico di Moser e a udir il mio nome, ebbe uno scatto che non tentò di reprimere, e un'impressione di piacere che tentò di celare, ma indarno.

In sostanza ecco quel che mi disse:

Il fallimento Moser gli si era presentato in una situazione più che discreta. Strano quindi per lui il fatto che non avesse avuto buon esito la moratoria. Convocati i creditori, si era loro proposto un dividendo del 60 per cento. Ma uno di essi, il signor Learchi, aveva richiesta, come la legge concede, una garanzia, insistendo perchè fosse garante l'ingegner Roveni. Forse lo rendeva dubbioso il troppo lauto dividendo! Poteva, a prima vista, recar meraviglia la pretesa d'aver garante uno dei creditori minori, quale il Roveni; ma questi più d'ogni altro aveva pratica dell'azienda fallita e meritava perciò, più d'ogni altro, la fiducia del Learchi. Se non che il Roveni non aveva accettato subito questa prova di fiducia; aveva voluto tempo a riflettere; ed era stata rimessa a un'altra convocazione dei creditori la sua risposta. Perchè mai?

Il curatore a questo punto sembrò attendere da me la spiegazione. Io, infatti, cominciavo:

– Evidentemente Roveni stesso consigliò Learchi a chiedere la garanzia, e Roveni seppe persuaderlo che egli solo…

Ma il ragioniere, quasi mal pago dell'«evidentemente» con cui era incominciata la mia risposta, m'interruppe:

– Prego! Mi lasci dire… So di dire una cosa grave… A lei non chiedo che la sua parola…

In fede del segreto io portai una mano al petto. Egli proseguì risoluto:

– Il contegno dei signori Learchi e Roveni mi insospettì. Avrò torto… badi; posso aver torto; mai il sospetto si è confermato in me, da ieri. Insomma: io dubito che nella gestione Moser ci siano irregolarità mascherate così bene da esser sfuggite alle mie indagini.

(Era la falsificazione a cui aveva alluso Learchi!)

Nè il curatore esitò ad aggiungere che il giorno innanzi Moser era stato da lui e a certe dimande aveva risposto, confuso, che gli schiarimenti desiderati poteva darli solo il Roveni. A questo, negli ultimi tempi, aveva affidato anche parte dell'amministrazione.

– È la verità, senza dubbio – dissi io.

L'altro non attese al mio asserto; come non m'avesse udito.

– Ho pregato quindi l'ingegner Roveni di venir da me per schiarimenti sui libri dell'azienda. Non è venuto; m'ha scritto che egli nell'amministrazione Moser non ha nulla a vedere, tranne il suo piccolo credito; e riferisce una clausola del contratto da lui conchiuso col Moser quando assunse la direzione della fabbrica. Per quella clausola va esclusa, ogni sua responsabilità amministrativa.

Volendo io di nuovo interloquire, il curatore mi trattenne con un moto d'impazienza.

– Non m'interrompa!.. Si dirà che Roveni ha messo le mani avanti per precauzione, per prudenza. Io però voglio le spiegazioni che ho richieste invano! Attendo documenti che dimostreranno meglio i rapporti della ditta Moser con due case commerciali; e se mi convincerò di quel che dubito, non esiterò un istante a compiere il mio dovere.

Io m'alzai d'impeto, esclamando:

– Ma io proverò che una vendetta indegna spinse il Roveni a tradire il suo benefattore! Un'infamia! scoprirò un'infamia!

Il curatore si strinse nelle spalle, quasi ciò importasse poco e punto.

Insistetti:

– Moser è un galantuomo! Ha avuto un solo torto: quello di addossarsi imprese superiori alle forze di un uomo e di aver fiducia illimitata in un birbante! Sopraffatto dal lavoro, lasciò tutto in mano a Roveni, senza pensare che costui si varrebbe di quella tal clausola per tradirlo!

Sdegnato, il curatone oppose:

– E perciò? Se io non m'inganno nei miei sospetti non sarà tutto questo che salverà Moser da un processo per bancarotta!