Lo Chef Della Polonia

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Lo Chef Della Polonia
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Lo

Chef

della

Polonia

Juan Moisés de la Serna

Traduzione a cura di Silvia Casuscelli

Edizioni Tektime

2020

“Lo Chef della Polonia”

Scritto da Juan Moisés de la Serna

Traduzione a cura di Silvia Casuscelli

1ª edizione: luglio 2020

© Juan Moisés de la Serna, 2020

© Tektime Edizioni, 2020

Tutti i diritti riservati

Distribuito da Tektime

https://www.traduzionelibri.it

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Prefazione

Quello che sto per raccontare, è esattamente il frutto dei miei ricordi. La storia più incredibile che io abbia mai vissuto, nonostante faccia parte del corpo di Gendarmerie Nationale (Polizia Nazionale Francese) da più di trent’anni. Alcuni di voi potrebbero pensare che abbia esagerato ma, per non dimenticare di includere nessun dettaglio, mi sono affidato al mio taccuino, che porto sempre con me quando partecipo ad un’investigazione ufficiale.

Il mio ruolo nella Interpol può sembrare di rilievo, ed ancora di più dopo aver ricevuto due medaglie all’onore: la Medaille d’Honneur de la Police Nationale (Medaglia d’Onore della Polizia Nazionale) e la Croix d’Honneur du Policier Européen (Croce d’Onore della Polizia Europea) ma, nonostante i miei odierni successi, il mio inizio non può essere definito del tutto glorioso.

Dedicato ai miei genitori

Indice dei contenuti

CAPITOLO 1. MEMORIE7

CAPITOLO 2. L’APPARTAMENTO

CAPITOLO 3. LA CACCIA

CAPITOLO 4. IL TEMPIO

CAPITOLO 5. VISITA DEL PAPA

CAPITOLO 1. MEMORIE

KRAKÓW (Cracovia)

Quello che sto per raccontare, è esattamente il frutto dei miei ricordi. La storia più incredibile che io abbia mai vissuto, nonostante faccia parte del corpo di Gendarmerie Nationale (Polizia Nazionale Francese) da più di trent’anni. Alcuni di voi potrebbero pensare che sia esagerato ma, per non dimenticare di includere nessun dettaglio, mi sono affidato al mio taccuino, che porto sempre con me quando partecipo ad un’investigazione ufficiale.

Il mio ruolo nella Interpol può sembrare di rilievo, ed ancora di più dopo aver ricevuto due medaglie all’onore: la Medaille d’Honneur de la Police Nationale (Medaglia d’Onore della Polizia Nazionale) e la Croix d’Honneur du Policier Européen (Croce d’Onore della Polizia Europea) ma, nonostante i miei odierni successi, il mio inizio non può essere definito del tutto glorioso.

Fui uno studente dell’École Nationale de Police (Scuola Nazionale di Polizia) e, a dire il vero, ero uno dei migliori, dato che con soli diciotto anni ero riuscito a superare brillantemente sia le prove fisiche che gli esami d’ingresso. La parte più semplice per me devo ammettere che, però, fu l’esame di lingua straniera.

Quando l’esaminatore mi chiese in quale lingua avrei voluto essere valutato, gli risposi:

―Posso sostenere la prova in inglese, spagnolo o italiano. Mio padre era Professeur d’Université de Histoire médiévale nella Université Bordeaux Montaigne (professore di storia medievale nell’Università Montaigne di Bordeaux), con passione per le lingue romanze derivanti dal latino e, in particolare, per il ramo italo-rumeno e iberico; mia madre, invece, lavora come interprete nel Consulat britannique en Bordeaux (Consolato britannico di Bordeaux). Capirà, quindi, che mi sento sufficientemente preparato per sostenere un semplice colloquio.

―E, invece, per quanto riguarda l’arabo e il tedesco? –chiese evidentemente sorpreso.

―Conosco la lingua araba, ma mi è difficile scriverla; ho cercato di imparare il tedesco, ma la sua pronuncia così marcata mi solletica la gola quando cerco di parlarlo.

―Però, lo conosce? –chiese di nuovo sorpreso

―Solo alcune parole, ma non ho molta scioltezza in questa lingua, è proprio per questo che non l’ho inclusa nella mia presentazione precedente.

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Mi dovrete perdonare se, ogni tanto, divagherò o, come diciamo in Francia, “tourner autour du pot“. Continuando la narrazione, dopo aver passato quelle prove, riuscii ad entrare nell’ École Nationale de Pólice, dove mi sarei dovuto formare per un anno e a cui sarebbe poi seguita la pratica, mentre continuavo la mia istruzione per diventare ufficiale di polizia, passo necessario per potermi convertire poi in Gardien de la Paix (Guardiano della Pace).

La mia esperienza lavorativa si prospettava tranquilla, ma non appena arrivai al piccolo commissariato che mi avevano assegnato, iniziai a distinguermi; in meno di un mese ero stato spostato al Commissariat et Bureaux de Police de Bordeaux (Commissariato e Ufficio di Polizia a Bordeaux), affinché potessi fare uso del mio potenziale, proprio come era stato detto da uno dei superiori.

Era così alta la considerazione che avevano di me che ben presto mi assegnarono mansioni che non corrispondevano affatto alla categoria di apprendista alla quale appartenevo, per esempio correggere le missive destinate a commissariati di altri Paesi, o presenziare ad interrogatori di persone straniere.

Le mie abilità comunicative, per l’aggiunta, avevano fatto sì che rapidamente venissi considerato un contatto con l’estero nei lavori di coordinazione, quando era richiesto l’intervento di un corpo straniero nella detenzione di qualche membro di una delle molteplici mafie, tra le quali la più conosciuta in Francia che era la “mafia marsigliese”.

In alcune occasioni viaggiava all’estero quando un detenuto doveva essere spostato, per fare da interprete alla scorta e controllare che non ci fosse nessun problema amministrativo nel trasferimento.

Un giorno, fui inviato a Krakow (Cracovia), una delle città più importanti della Polonia e molto vicina al confine con la Repubblica Ceca e la Slovacchia.

Non sapevo molto di questo Paese, solamente che si trovava nell’area dell’Est Europa e, certamente, che era entrata sotto l’occupazione tedesca nella Seconda Guerra Mondiale, venendo poi liberata dagli alleati. Non avevo mai avuto il desiderio, però, di viaggiare fino a lì e conoscere quelle terre; preferivo i paesaggi bagnati dal Mar Mediterraneo e che riuscivo a godermi nella stagione estiva, di cui apprezzavo inoltre le lingue e culture

Però, ora mi trovavo proprio lì, appena atterrato al Krakow lotnisko Jana Pawla II (aeroporto di Cracovia, Giovanni Paolo II), rivolgendo lo sguardo ovunque e tentando di indovinare il significato dei cartelli. Per mia fortuna, in quel luogo potevo parlare in inglese, e riuscii quindi velocemente a chiamare un taxi per accompagnarmi all’hotel in cui avrei alloggiato.

Mi era stato detto di agire con discrezione, che si avrei dovuto prender parte ad una riunione di alta sicurezza e che, solamente un’ora prima dell’inizio, avrei ricevuto un messaggio con l’indirizzo dell’incontro.

Pensai che le misure di sicurezza che mi stavano dicendo di adottare fossero esagerate per quello che era il trasferimento di un semplice prigioniero. Avrebbe potuto occuparsene qualsiasi altro collega, ma questo succedeva per “être la cinquième roue du carrosse” (essere l’ultima ruota del carro). A volte, dovevo occuparmi di questioni interessanti ma, in altre occasioni, non lo erano affatto.

Avrei dovuto pernottare in un hotel in periferia, vicino all’autostrada per rendere più semplici i miei spostamenti verso qualsiasi parte della città, in qualunque posto fosse stato l’appuntamento. L’hotel era peculiare, con stanze minuscole in cui tutto sembrava fosse misurato al millimetro e me ne accorsi perché, per esempio, aprendo la porta del bagno rimanevano solo alcuni centimetri di distanza dal letto, ed il televisore era stato messo vicino al soffitto appoggiato su una mensola.

Una stanzetta piccola, completamente ricoperta di moquette che rendeva l’ambiente claustrofobico, che si aggiungeva all’unica finestra esistente che si affacciava sulla parte posteriore dell’hotel, un grande cantiere in cui si stavano costruendo alcuni edifici e in cui gli operai iniziavano a lavorare ogni mattina esattamente alle sei in punto.

E, pour couronner le tout (per coronare il tutto) il tempo era insopportabilmente caldo, tanto da dover lasciar aperte la porta e la finestra durante la notte per far sì che passasse una leggera corrente e poter cercare di dormire tranquillamente.

Quelle temperature erano qualcosa di cui nessuno mi aveva avvisato, nemmeno l’infallibile motore di ricerca in Internet, che assicurava che la temperatura massima estiva sarebbe stata di diciannove gradi.

 

La prima cosa che dovevo fare al mattino appena sveglio era infilarmi in doccia. A mezzogiorno mi aspettava la seconda e, prima di dormire, l’ultima della giornata. Doccia di acqua fredda, come se mi fossi trovato nelle Isole Canarie in piena estate.

Dal mio arrivo, il termometro durante il giorno non aveva accennato a scendere al di sotto dei trenta gradi, qualcosa che, a parere della receptionist, era inusuale; mi prestarono un ventilatore affinché potessi rendere più sopportabile la mia permanenza in quella minuscola stanza. Infatti, l’aria condizionata era installata ma, essendo le temperature così alte un’eccezione, solo era stata predisposta per il riscaldamento invernale.

Il tempo passava e quando chiamavo in Francia mi dicevano di essere paziente, che le date stavano per essere decise; nel mentre, ingannavo il tempo passeggiando per la città e scoprendone i luoghi storici.

A dire il vero, non riuscivo a capire nulla per quanto riguardava la lingua, nemmeno la parte scritta: erano delle parole in cui, chiaramente, mancavano delle vocali. Di alcune, dopo averle visto varie volte, riuscii ad indovinare il significato come per esempio ulica (strada), o il saluto sonoro che ascoltavo ad ogni ora del giorno, dzien dobry (buongiorno). Quello che attirò la mia attenzione fu che lo usavano a qualsiasi ora, senza fare distinzioni se fosse mattino, sera o notte fonda.

I cartelli erano incomprensibili, e le parole mi sembravano impronunciabili a causa della combinazione delle lettere.

La provenienza della lingua mi incuriosì e, informandomi, capii perché era una delle lingue europee più complicate da imparare: l’alfabeto era di trentadue lettere, di cui ventitré consonanti e nove vocali, e tre generi distinti (maschile, femminile, neutro). A questo, vanno aggiunti l’uso degli accenti e le parole, e tutto l’insieme fa sì che si tratti davvero di qualcosa di complicato.

Non tardai a notare che i giovani parlavano un inglese perfetto, e per questo non mi fu difficile trovare i luoghi che avrei voluto visitare, facilitando i miei movimenti con l’utilizzo di tram e autobus moderni che collegavano ogni parte della città con lo Stare Miasto (centro storico).

Per entrarci, bisognava attraversare una parte di muraglia ancora intatta, da cui si accedeva ad una lunga strada piena di negozi che sfociava, a sua volta, sulla Rynek Glówy (Piazza Centrale), considerata una delle piazze medievali più grandi d’Europa.

Qui si potevano ammirare due chiese, la Kosciol Mariacki (Basilica di Maria Santissima) e quella di San Wojciech. Si poteva anche visitare il Wiela Ratuszowa w Krakowie (la torre del vecchio Comune), il Museo Nazionale dell’Arte di Cracovia e una galleria di negozi sotto dei portici, chiamata Sukiennica, in cui si venivano venduti prodotti tipici del Paese come oggetti in legno o ambra, scacchi e teli vistosamente ricamati. Era un posto piacevole in cui passeggiare, e ottimo per rifugiarsi dal calore soffocante delle ore centrali della giornata.

Mantenevo, anche in questa terra lontana e straniera, la mia passione per il buon cibo, che aveva fatto sì provassi quasi tutti i piatti in Francia; anche quando mi trovavo all’estero, cercavo di frequentare i posti più raccomandati per poter provare i piatti tipici del posto.

Avevo già mangiato in ristoranti di una, due o tre étoiles Michelin (stelle Michelin), anche se non sempre mi ero trovato d’accordo con le sue recensioni, ma avevo comunque potuto godere di cene squisite.

Ma depuis quelque temps (da qualche tempo), preferivo provare la cucina tipica del luogo in cui mi trovavo, credendo fermamente che ci si riflettesse la più vera essenza di ogni popolo, e che dava la possibilità di toccare con mano ciò che si può trovare scritto nelle guide turistica.

Fin dal primo giorno pranzai e cenai nella citta di Krakow, frequentando il ristorante dell’hotel solo durante il ricco buffet della colazione; una decisione azzeccata, visto che tutto quelle che successe poi, fu grazie a questa mia scelta.

Avevo letto che nella città si potevano trovare delle antiche taverne dall’aria comunista che continuavano ad essere aperte; erano denominate Trabant, e l’ambiente era migliore del cibo, anche se il prezzo era molto accessibile.

Le pareti colme di ricordi dei tempi andati, che trasmettevano una nostalgia marcata dell’epoca d’oro dell’U.R.S.S., mi facevano riflettere sulla complessità di quel popolo, situato tra due delle potenze più importanti della storia: la Russia e la Germania.

Fui anche ad uno dei ristoranti più eleganti della città o, come lo chiamano qui, Restauracja, per conoscere la raffinatezza dell’alta cucina e vedere il contrasto con quella popolare che avevo provato. Notai che i prezzi erano più bassi rispetto alla Francia: in Polonia l’Euro non è ancora presente, nonostante faccia parte dell’Espace Economique Européen (Comunità Economica Europea). Così, con un cambio di cento euro per quattrocento PNL (moneta polacca) o Zloty, come veniva chiamata, fa sì che una cena dal costo di circa venti Zloty valga solo cinque euro.

La terza sera, mi avvicinai a un ristorante del quartiere che avevo visto quella stessa mattina durante una delle mie visite per la città. Se non mi avesse incuriosito la sua grande insegna, non mi sarei nemmeno reso conto che si trattasse di un locale.

Dall’esterno, quella vetrina appena si distingueva dal resto degli edifici; quando entrai vidi, con mia sorpresa, che era una piccola stanza e che l’ambiente mi ricordava molto i Bistrot (ristoranti francesi famigliari) del mio adorato Paese, con solo quattro tavoli dei quali uno era occupato da un’anziana signora ed un giovane.

Decisi di sedermi ed ordinare. La cameriera pronunciò una frase ma non la compresi e, quindi, optai per ordinare un piatto internazionale, pensando che sicuramente il cuoco lo avrebbe saputo preparare: escalopes à la crème (scaloppine alla crema di funghi). Usai la mimica per assicurarmi che avesse capito.

Con un’espressione stranita, si avvicinò ad una piccola finestra nella parete e gridò alcune parole, probabilmente alla cucina che si trovava dall’altro lato.

Di colpo si sentì di nuovo quello che aveva gridato, come se si trattasse di un eco e, pochi secondi dopo, apparve un quello che doveva essere il cuoco; da lontano, mi guardava con una faccia stranita.

Alzai la mano per salutarlo, anche se aveva senz’altro notato la mia presenza vista la scarsa clientela. Il ristorante manteneva le medesime decorazioni che erano state senza dubbio scelte decenni prima; si poteva notare il verde consumato delle piastrelle del pavimento che contrastava con il marrone delle pareti, facendolo assomigliare più ad una cucina di una comune casa che a un vero ristorante.

Passarono solo alcuni minuti quando la donna mi portò un piatto ricolmo di una pietanza che sembrava essere una salsa, spessa e bianca, accompagnata da una cesta di pane, una caraffa di acqua ed un bicchiere.

―La ringrazio, ma preferisco non mangiare nulla prima del piatto principale ―dissi sapendo che, comunque, non mi avrebbe capito.

Come previsto, il mio commento non la smosse minimamente; si voltò dirigendosi verso gli altri clienti, che stavo iniziando a considerare dei compagni durante la stramba esperienza.

Il mio piatto stava tardando ad arrivare, così presi del pane e decisi di provare ciò che mi era stato portato.

Con mia grande sorpresa la trovai gustosa, assomigliava al formaggio spalmabile ed aveva tante sfumature di sapori, tra cui potevo riconoscere la cipolla, il pomodoro ed il cetriolo, tagliati finemente e cosparsi al centro.

Era un ottimo antipasto, ma non era niente di straordinario; si trattava di un semplice aperitivo, mentre aspettavo la mia vera cena.

Per distrarmi, pensai di prendere il mio taccuino degli appunti per ripassare alcune commissioni che non avevo svolto prima del viaggio, quando vidi venire verso di me il cuoco con un piatto in mano e, dopo averlo delicatamente appoggiato davanti a me, disse:

Votre commande, Monsieur (Il Suo ordine, signore).

Oh mon Dieu, sa nourriture ressemble beaucoup (Dio mio, sembra buonissimo) ―dissi con soddisfazione.

Bon appétit (Buon appetito).

Merci (Grazie).

Il n’y a pas de quoi (Non c’è di che).

S ritirò nella sua cucina e, davanti a me, vidi delle magnifiche escalopes à la crème che, anche se si trattava di un piatto estremamente facile da realizzare, avevano un aspetto davvero delizioso.

Se non fossi entrato nelle forze dell’ordine, mi sarebbe piaciuto essere un critico gastronomico. Non che io avessi grandi doti, ma sapevo bene quello che mi piaceva e quello che non era di mio gradimento, e quel piatto non arrivava solo attraverso la vista ma anche con l’olfatto, dato che il profumo era inebriante. Rimaneva la parte più difficile, ovvero verificare che fosse stato cucinato in maniera perfetta: non troppo cotto, non troppo duro ma, come dicevamo in Francia, Au Point (Al punto).

Provai il primo boccone e mi resi conto che era davvero squisito, non so a causa del contrasto con i sapori che avevo provato nei giorni precedenti, o perché avessi nostalgia della mia terra. Infatti, anche se erano passati solo tre giorni, il mio soggiorno non mi stava entusiasmando; non sapevo come occupare il tempo e sembrava che le ore passassero in modo lento; per di più, il calore non mi stava di certo aiutando: non riuscivo ad adattarmi o trovare un posto tranquillo dove stare meglio.

Mentre ero intento a godermi il piatto, la donna che era seduta al tavolo di fianco al mio si alzò con il piatto in mano, e si diresse verso la cucina.

Non bisognava essere degli indovini per capire cosa si stessero dicendo, dato che i toni di voce si erano alzati non appena si era avvicinata. Non sapevo cosa fosse successo esattamente, ma tornò a mani vuote e si sedette di nuovo al suo posto. Dietro di lei, il cuoco con in mano quello che sembrava essere lo stesso piatto. Glielo mise di nuovo davanti, mentre le farfugliava alcune parole indicando il giovane seduto di fronte a lei.

Il suo disappunto si trasformò in stupore: la donna si portò le mani alla bocca, e, poi, le abbassò lasciando comparire un enorme sorriso. Il ragazzo, che era rimasto impassibile davanti a quella scena, estrasse qualcosa dal portafogli e glielo mostrò. Lei iniziò a piangere di gioia, mentre toccava più e più volte quell’oggetto.

Non riuscivo ad interpretare quella scena e, nonostante fossero a poca distanza da me, la loro lingua mi era davvero incomprensibile.

Terminata la cena pagai il conto e, mentre mi incamminavo verso l’uscita, il cuoco mi rincorse dicendomi:

Merci pour votre visite dans notre humble maison (Grazie per la sua visita alla nostra umile casa).

Merci à vous, bien sûr, vous avez un bon niveau de français (Grazie a Lei. Ha davvero un buon livello di francese).

―Grazie, mi sarebbe piaciuto studiare nell’École Le Cordon Bleu di Parigi. Mi stavo preparando, e non solo per quanto riguarda la cucina, ma studiando anche la lingua del posto. Alla fine, non ebbi l’occasione di farlo.

―È per questo, quindi, che sai come preparare delle ottime escalopes à la crème ―commentai cercando di essere gentile.

―Certo, ad ogni modo non è una preparazione difficile. Ti consiglio, comunque, la prossima volta che andrai a cena, di portare con te un foglio indicando quello che desideri mangiare, per evitare equivoci.

―Perché? ―chiesi sorpreso.

Agnieszka (Ines) mi ha riferito che avevi ordinato Placki ziemniaczane.

―E che cosa sarebbe?

―Un piatto tipico polacco, composto da patate con salsa di pomodoro e formaggio grattugiato, accompagnato da verdure e cetrioli.

―Meno male che ti sei reso conto della confusione! Comunque, che cosa è successo alle persone nel tavolo di fianco al mio?

―Vedo che sei un impiccione ―mi disse, mentre mi faceva l’occhiolino―. La donna cercò di rimandare indietro il piatto, dicendomi che il cavolo non era fermentato e che, quindi, non l’avrebbe mangiato. E questo, per cercare di terminare rapidamente la cena con suo figlio. Dopo averla tranquillizzata mostrandole i condimenti che uso in cucina, le dissi di tornare al proprio posto.

 

―Che cosa gli hai detto, poi? La sua espressione cambiò repentinamente…

―Nulla, solo che era evidente che suo figlio avesse qualcosa di importante da dirle, ma che durante tutta la cena non gli aveva nemmeno dato la possibilità di parlare.

―E di che cosa si trattava? Prese qualcosa dal suo portafogli, ma non riuscii a vedere che cos’era.

―La foto di una ragazza, la sua futura moglie. La madre non aveva idea che fosse fidanzato, e tanto meno che si stesse per sposare. Per questo ha avuto quella reazione.

―Complimenti, sei riuscito esattamente a capire cosa stava succedendo tra i due…

―Mi risulta facile capire le intenzioni delle persone, riesco a leggerle come se fossero un libro aperto.

―Proprio come nella serie TV Le Mentaliste (Il Mentalista)!

―Non sono un indovino, se è questo quello a cui sta alludendo, potrei considerarmi più simile al personaggio della serie Lie to Me: Crimes et Mensonges (Lie to Me).

―Davvero? Che strano! Voglio dire, non ho mai visto una persona così sicura delle sue parole e capacità ma, se è davvero così, allora dimmi… A che cosa sto pensando?

―Non funziona esattamente in questo modo. Riesco, invece, a capire quello che realmente desidera o sente una persona, proprio come nel tuo caso. Come ben sai, ti ho preparato il piatto che avevi chiesto, anche se la cameriera aveva frainteso l’ordine.

―Credo che si sia trattato di una pura casualità…

―Pensi questo?

―Non so che dire, questo tema mi confonde abbastanza.

Era troppo tardi per mettersi a riflettere su un argomento così assurdo, astratto e strambo; inoltre, come diciamo in Francia, Du dire au faire, il y a un grand pas (tra il dire e il fare, c’è di mezzo il mare). Lo ringraziai per l’accoglienza e la sincerità con cui mi aveva accolto, uscii poi dal locale e presi velocemente un taxi per tornare all’hotel e riposare.

Erano le sei in punto del mattino successivo quando ricevetti un messaggio sul cellullare ma, nonostante fosse molto presto, ero già in dormiveglia a causa degli operai che iniziavano proprio in quel momento i lavori nel cantiere.

Il messaggio diceva: “Alle dieci, al Sheraton Krakow Hotel”. Se avessero voluto essere discreti, avevano certamente scelto il posto peggiore: un hotel a cinque stelle con una facciata moderna, vicino al centro storico della città, al lato del Królewski na Wawelu (Castello Reale di Wawel) e di fronte al fiume Wisla (Vistola).

Come d’abitudine, appena sceso dal letto mi infilai in doccia e aprì il getto d’acqua fredda per togliermi di dosso il sudore del calore notturno, nonostante ogni pomeriggio, prima di rientrare, comprassi una borsa di ghiaccio per rinfrescarmi. Il ghiaccio, dopo qualche ora, a causa del calore si era scioglieva completamente.

Pronto per andare all’appuntamento, uscii per prendere l’autobus che mi avrebbe portato vicino alla destinazione. Ero entusiasta del fatto che stavo per iniziare una delle mie prime missioni come agente operativo, e mi allettava molto più che stare ad aspettare senza avere nessuna occupazione.

Durante il tragitto in autobus rimasi sorpreso dalla quantità di persone che salivano e scendevano, anche solo per arrivare alla fermata successiva, considerando le grandi distanze in un’area metropolitana che conta quasi tre milioni di persone.

Arrivati vicino al fiume Wisla, lasciai il bus e scesi una scalinata per arrivare ad una stradina graziosa affianco alla riva. In un lato si trovava lo Sheraton Krakow Hotel e, subito dopo, il famoso Zamek Królewski na Wawelu (Castello di Wawel), una costruzione gotica del secolo XIV ricostruita in varie occasioni, e considerato il punto storico più importante della Polonia poiché tra le sue mura avevano vissuto, durante i secoli, i monarchi.

Camminai solo qualche metro e mi ritrovai di fronte a quel moderno edificio che, senza rompere l’estetica caratteristica del posto, gli dava una sfumatura distinta grazie alla sua brillante facciata di cristallo. L’uso di grandi vetrate era un’abitudine che avevo notato sin dai miei primi momenti nella città. Ovunque guardassi, queste ampie finestre erano state integrate tutte le strutture storiche o moderne. In hotel mi era stato detto che era una peculiarità di tutti i paesi nordici, dato che in questo modo permettevano il passaggio di quanta più possibile luce naturale soprattutto nei mesi invernali, in cui si trasforma in un bene altamente scarso e prezioso.

Sarebbe stato, invece, impensabile nei territori mediterranei come per esempio la Spagna, in cui di solito si coprono le finestre o i balconi con grandi persiane di legno o plastica per impedire l’entrata dei raggi del sole, o le tipiche volets battants bois (persiane pieghevoli in legno) che si usano in Francia.

Varcai l’ingresso di quel lussuoso hotel e mi ritrovai nel grande atrio; mentre aspettavo di essere ricevuto, si avvicinò una coppia di turisti. Uno dei due disse:

―Non Le hanno detto che non deve attirare l’attenzione?

―Che cosa? –replicai io sorpreso dalla domanda di quello sconosciuto.

―Si suppone che sia una riunione segreta, e dovrebbe passare inosservato.

―È proprio ciò che sto cercando di fare…

―Come può essere anonimo, con quel papillon rosso e quei piccoli e strani baffetti?

―Quelli che chiama “baffetti” sono ma moustache e, mi spiace, non posso uscire senza il mio nœud papillon rouge (papillon rosso) o une cravate rouge (cravatta rossa), non mi sentirei a mio agio.

―Meglio lasciar perdere le sciocchezze, mi segua. – disse con un tono autoritario.

―Non so chi siate e che cosa desideriate, ma sicuramente mi avete confuso con un’altra persona.

―Per favore ―si intromise la donna ―, da quando è sceso dall’autobus sta attirando su di sé l’attenzione, tutti sanno che è francese.

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