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Capitolo 3

Un terzo assassinio, due giorni dopo il colloquio fra Evaristo e Vittorio, aveva confermato la traccia del maniaco omicida, ormai definito dai media, e quindi dal pubblico, il Mostro dell’Orecchio.

La vittima, Margherita Piccozza Ferini di cinquantacinque anni, casalinga, era moglie d’un funzionario di banca di grado elevato. Anche questa coppia, come quella del primo delitto, era senza figli. I coniugi vivevano in un appartamento di loro proprietà in un palazzo in Lungo Dora Voghera. Era stato il marito dell’uccisa, rientrato a casa dal lavoro verso le 18, a fare la raccapricciante scoperta e ad avvertire il 113. Il cadavere presentava un evidente ematoma alla testa, come nel secondo caso; questa volta, però, non s’era trovato l’oggetto contundente, l’assassino doveva esserselo portato via: il medico legale avrebbe stabilito trattarsi d’un martello.

Vittorio, poco dopo le 19, dopo una rapida cena, era uscito per andare a un cinema e non aveva visto il suo solito notiziario televisivo; neppure, al ritorno, aveva guardato un telegiornale della notte, perché s’era messo subito a letto a leggere un libro, fin a quando era stato preso dal sonno. Aveva avuto dunque notizia del delitto solo la mattina seguente, da un articolo di Carla Garibaldi che ne riportava le modalità.

L’amico aveva telefonato a Evaristo che, anche stavolta, l’aveva volentieri ricevuto nel suo ufficio.

Il commissario gli aveva detto: “Purtroppo per la vittima, un cane pastore tedesco che la coppia teneva a guardia dell’alloggio e per difesa personale, è morto proprio ieri mattina, non molte ore prima della morte della signora Ferini avvenuta, secondo i primi riscontri del medico legale, fra le 15 e le 17. Come ci ha detto il vedovo, il corpo dell’animale, per ragioni igieniche, era stato incenerito a cura del veterinario di famiglia, cui la padrona l’aveva portato in mattinata a quel preciso scopo. Dato che io credo assai poco alle coincidenze, ho il sospetto che l’assassino avesse gettato al cane uno o più bocconi avvelenati mentre la bestia, quella mattina sul presto, si trovava nel giardino pubblico sotto casa, lasciata come al solito libera dal padrone, com’egli ci ha detto fra un singhiozzo e l’altro per sua moglie, pover’uomo: il loro Lampo ha cominciato a sentirsi male salendo sull’ascensore e in casa s’è prostrato a terra senza più forze; i coniugi l’hanno allora riportato di sotto, lui tenendolo in braccio, e l’hanno caricato sull’utilitaria della moglie perché lei lo portasse dal veterinario, ma il cane a quel punto è morto; dunque, mentre lui, per non giungere in ritardo, è andato senz’altro in banca con la propria auto, la moglie, con la propria, ha condotto la bestia allo studio, com’era in programma, ma solo più per farla incenerire”.

“Dunque, Evaristo, l’assassino non sarebbe preda d’improvvisi raptus, ma preparerebbe con cura i suoi delitti”.

“Se è vera la mia idea dell’avvelenamento del cane, direi di sì”.

“Sfortunaccia vuole che non ci sia più il corpo dell’animale per un’autopsia”.

“Appunto”.

Il quarto omicidio era avvenuto il posdomani, fra le 0 e le 2 di notte a parere del medico legale. Era stato eseguito col solito metodo del punteruolo affondato in un orecchio, ma aveva avuto per vittima un uomo, un certo Alessandro Cipolla, sessantasei anni, pensionato, ed era stato perpetrato sulla via.

La mia collega Carla aveva saputo dal proprio vice, per un comunicato ai media da questi raccolto in Questura, che il morto era stato un etilista senza casa che aveva vissuto negli ultimi anni da vagabondo, dormendo sotto cartoni d’imballaggio in qualche angolo di gallerie pubbliche o portici, e ch’egli era già conosciuto alla Polizia a causa d’una chiamata via telefonino al 113, un paio di mesi prima, da parte d’una signora, molto anziana ma sempre lucida, già insegnante di lettere, da lui molestata sotto i portici di via Roma con una brusca richiesta di denaro e, nulla ottenendone, da lui bersagliata di sputi: non appena era giunta una volante, l’austera professoressa aveva chiesto agli agenti di prendere i dati del molestatore, che intanto aveva seguitato a girarle attorno facendole pernacchie e, alternativamente, ruttandole contro effluvi vinacei, e aveva fatto seguire una denuncia in Questura lo stesso giorno. L’aveva però ritirata il dì seguente, per sopraggiunta compassione, “dopo una notte di rimorsi alla innominato del Manzoni”, pare avesse detto con assoluta serietà al perplesso assistente capo di turno. Il senza dimora Cipolla mangiava alle mense dei poveri e si beveva nei bar e nelle vinerie non solo tutta la pensione, ma pure quanto riusciva a raggranellare chiedendo l’elemosina, sempre con un fare aggressivo, essendo ubriaco fin dal mattino. Era un avanzo d’uomo che nessuna persona d’assennato sentire avrebbe avuto la spietatezza di colpire fisicamente in qualche modo, e meno che mai d’uccidere e in maniera talmente atroce.

Considerando lo stato asociale dell’ultimo ucciso, era scoccata nel vice questore Giandomenico Pumpo, non dimentico d’essere stato il capo della Squadra Anti Sette, l’idea che si fosse trattato d’un omicidio rituale di fanatici del cosiddetto satanismo giovanile acido, non nuovo ad attacchi a inermi barboni dormienti, quali di loro gravemente feriti, quali uccisi, sebbene le azioni si fossero svolte, fino ad allora, cospargendo le vittime di liquido infiammabile e dando loro fuoco. Il dottor Pumpo aveva indirizzato Evaristo Sordi anche su tale strada.

La nostra Carla Garibaldi era stata informata della nuova pista da Vittorio, con la mia mediazione, ed era uscito in conseguenza su La Gazzetta Libera un suo articolo-inchiesta sulle sette diaboliche, che faceva riferimento ai delitti del Mostro dell’Orecchio. Il mio amico vi figurava, anonimamente, come ‘ fonte vicina alla Questura’.

Capitolo 4

[Da “La Gazzetta Libera”]

Il Mostro dell’Orecchio sarebbe

in realtà un gruppo diabolico?

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Il vice questore Giandomenico Pumpo ha indirizzato

le indagini anche verso possibili delitti rituali satanici

Carla Garibaldi

Secondo una fonte vicina alla Questura, dopo l’ultimo delitto del Mostro dell’Orecchio di cui, come avevamo scritto in precedenza, è stato vittima un senzatetto di nome Alessandro Cipolla, pare che il dirigente della Sezione Omicidi della Squadra Mobile dottor Giandomenico Pumpo abbia rivolto le indagini nella direzione dei gruppuscoli satanici e para satanici giovanili, essendo non inusuale che queste cricche infieriscano su vittime sole e indifese e in particolare su vagabondi, facilmente aggredibili di notte mentre dormono per strada.

Il fenomeno del satanismo è piuttosto diffuso in Italia e soprattutto nella nostra città, anche se finora non pareva salito oltre i limiti di guardia: Torino è, con Praga, Lione, Londra e San Francisco uno dei principali centri mondiali del culto di Satana.

Com’è stato reso noto da tempo dal CASOC, Centro Anti Sette Occulte Cattolico, sono tre le grandi tipologie del settarismo diabolico, il satanismo acido giovanile, di cui un gruppo non identificato è sospettato del delitto Cipolla, il satanismo storico-tradizionale, che raccoglie adulti, e le psicosette. Il CASOC è guidato ormai da tre decenni dal canonico Vincenzo Scofiani Biancon, ch’esercita pure la mansione d’esorcista presso la Curia, ma era stato fondato, nel 1965, e diretto per circa un lustro da don Giulio Colamonti che, alla fine del 1970, era stato allontanato dall’incarico, divenendo poi parroco di San Taddeo, parrocchia che guida tuttora. Il sacerdote era stato rimosso dopo un’aggressione subita nel febbraio di quello stesso anno da tre giovani satanisti tossicodipendenti – nelle sette giovanili acide vien fatto normalmente uso di allucinogeni – per la quale era stato ricoverato gravemente ferito e in stato di shock, rimanendo poi per molti mesi psicologicamente prostrato e assoggettato a terapie neurologiche.

Il culto diabolico giovanile, a differenza di quello adulto e tradizionale, è uso farsi propaganda. La sua promozione è corrente in primo luogo nei testi delle canzoni di famosi complessi rock, canzoni in libero commercio dove alcune parole, se ascoltate al contrario, inneggiano al Diavolo con un effetto subliminale sugli ascoltatori. Peggio, segretamente circola musica che celebra espressamente cose atroci, come lo stupro o addirittura lo sbudellamento di bambini e l’uccisione di ebrei, nomadi, immigrati e vagabondi col gas o col fuoco: il cosiddetto nazisatanismo. Nel web, ormai da qualche tempo, sono presenti alcuni2 siti che sguazzano nel macabro e nel pruriginoso sulfureo, e sono in aumento. Coloro che simile propaganda suggestiona mettono in pratica, in modo naïf e dunque più colmo di pericoli per il pubblico, gl’insegnamenti ricevuti. Su quei siti internet, recensioni a opere horror letterarie e cinematografiche e a musica satanica si mischiano con l’esaltazione della pratica di nefandezze varie, prospettando come normali vari reati contro la persona e il patrimonio. Ne sono suggestionati in primo luogo i giovani ma non mancano gli adulti. Tutti sono attratti dall'idea d’esercitare una libertà assoluta trasgredendo la morale ordinaria: in realtà si propaganda e si mette in pratica la mera licenza, mentre la libertà presuppone sempre, come contraltare, l’esercizio del dovere verso gli altri, condizione indispensabile per una convivenza sociale duratura, secondo l’insegnamento etico classico che, in Occidente, ha matrice biblica. Il passo dall’apprendimento teorico alla messa in pratica non è molto lungo, con la conseguenza di non pochi satanisti, singoli o, più sovente, riuniti in piccoli gruppi; ed è proprio questa gente, a detta di Polizia e Arma dei Carabinieri nonché del CASOC, la più pericolosa per l’incolumità fisica dei cittadini. Il satanismo fai da te è composto da molte più persone di quello ufficiale, nel nostro Paese almeno da qualche migliaio d’elementi. Aveva comunicato tempo fa alla stampa la SAS, Squadra Anti Sette della Questura, che la prassi dei satanisti giovani segue normalmente un preciso iter. Essi all’inizio s’abbandonano soltanto, si fa per dire, a profanazioni di tombe e ad altri macabri riti in zone isolate, dove s’avvalgono di resti umani e di simulacri sessuali in lattice e spargono sangue di pollame o, talvolta, umano prelevato sul momento via endovena, oppure derivante da sacche ematiche rubate a banche del sangue. Un luogo abituale di simili nefandezze era stato, fin a un paio d’anni dopo l’aggressione a don Colamonti, avvenuta proprio in quella zona, il piccolo cimitero sconsacrato del Santissimo Crocifisso, al numero 28 di via San Pietro in Vincoli, quartiere Aurora Rossini. Poi il Comune, anche per contrastare simili cose, lo aveva adibito ad arena d’eventi culturali, durante le notti d’estate, e i cultori del Diavolo avevano scelto altri luoghi, nei boschi del torinese. I satanisti acidi passano in breve tempo a pratiche più criminali, come le violenze carnali, attuate anche su minori, fino alla possibilità non remota d’omicidi rituali. I riti satanici possono raggiungere livelli orripilanti.

Per quanto riguarda, invece, il satanismo classico di adulti, esso è assai meno visibile di quello giovanile acido ed è molto ben organizzato, sia sul piano ideologico sia, in particolare, su quello teologico, anzi antiteologico visto che è oggetto di disprezzo il Dio giudeocristiano e viene adorato come dio il Diavolo, considerato un martire della libertà, confusa con l’arbitrio. Questo satanismo pianificato e tradizionale è d’origine antichissima, addirittura precristiana. Esso fu braccato, soprattutto dal Rinascimento in poi, tanto dall’Inquisizione quanto dai tribunali protestanti, purtroppo sfociando tale caccia anche in persecuzioni di molti innocenti che nulla avevano a che fare col culto del Diavolo. Il demonismo classico, anche se non si presenta clamorosamente e non giunge più a uccisioni rituali di neonati e vergini come in passato, è tuttavia il responsabile ideologico, coi suoi pessimi maestri, dei moderni delitti dei satanisti acidi e, in generale, è la forma demonista più nemica del bene sociale, perché combatte diffusamente, con forza psicologica e ampi mezzi economici, qualsiasi morale e ogni valore civile tradizionali: i suoi membri sono socialmente in alto, in ambienti non sospetti, e costituiscono vere e proprie lobby di potere economico, politico e artistico-culturale; tra di loro si trovano molti degli intellettuali fortemente critici, quando non addirittura caustici, verso il Cristianesimo e, soprattutto, contro la Chiesa cattolica, che si fingono atei ma in realtà, nella loro demoniaca maniera capovolta, credono fermamente nel soprannaturale. Tale demonismo adulto è d’élite pure quanto al numero dei membri, in Italia si compone infatti, secondo il CASOC, di appena dieci gruppi con poche decine d’aderenti ciascuno: alcune centinaia di persone in tutto. È sicuro che esiste nella nostra città una di tali conventicole, fra le più antiche, sempre a detta del CASOC.

Per quanto riguarda infine la terza tipologia dei gruppi satanici, quella delle psicosette, tanto per la Questura che per il CASOC esse comprendono il maggior numero d’aderenti, qualche centinaio di migliaia nel nostro Paese, e rappresentano un satanismo di fatto che s’esercita nella soggezione psicologica ed economica dei membri ai propri capi, fino alla schiavitù, cominciando dalla sistematica donazione obbligatoria del patrimonio personale al gruppo, cioè in sostanza ai suoi dirigenti. Le psicosette però non presentano forme esterne d’adorazione demoniaca, per cui, al pari dei satanisti adulti, nemmeno queste persone possono essere verosimilmente sospettate dei delitti del Mostro dell’Orecchio: sempre, ovviamente, che si tratti davvero d’omicidi rituali come sospetta il vice questore.

Peraltro, se da una parte confidiamo che la nuova pista indicata dal dottor Pumpo conduca a un rapido epilogo della scellerata vicenda, non va trascurato il fatto che le precedenti vittime erano state assalite in casa propria.

carlgari@gazzetta.it

Capitolo 5

La salma della quinta vittima, nuovamente di sesso femminile, era stata trovata dalla Polizia alcuni giorni dopo il decesso, grazie alla denuncia di un’amica e collega, insospettita dal fatto che la donna non si fosse presentata al lavoro e non avesse risposto alle sue chiamate telefoniche. Le forze dell'ordine, ottenuta l’autorizzazione del giudice ad accedere in casa, avevano potuto entrare sfondando la porta, chiusa col solo mezzo giro come nei primi tre omicidi. La vittima si chiamava Mosca Scrofagnocca, cinquantottenne commessa in un maxi negozio di cucine e articoli per bagno. Nubile senza parenti, abitava da sola, inquilina d’un vecchio bilocale di via Stampatori. Il delitto, secondo il medico legale, doveva essere avvenuto il giorno successivo a quello dell’omicidio Cipolla. Anche questo cadavere mostrava i segni d’un forte colpo in testa preventivo alla perforazione del cerebro con un punteruolo.

Vittorio aveva saputo da Evaristo, il dì successivo a quello del ritrovamento della salma, che pure la Scrofagnocca era stata sotto l’occhio dell’antiterrorismo negli anni ’70 e ’80: ce n’erano annotazioni presso la DIGOS della Questura, dalle quali risultava che le idee rivoluzionarie della Scrofagnocca erano di famiglia, essendo stati i suoi genitori sfegatati stalinisti nel Partito Comunista di Togliatti anni ’40 e ’50, noti alla Questura come agitatori abituali e occasionali bastonatori di attacchini della Democrazia Cristiana durante le prime campagne elettorali. Il nome completo che i due avevano sciaguratamente appioppato alla figlia era Mosca Stalina, pur s’ella usava da un pezzo, dopo ch’era svenuta negli anni ‘80 la buriana rivoltosa iniziata nel ’68, solo più il nome Mosca, che non richiamava immediatamente l’ormai defunta Unione Sovietica. Era inoltre emerso dall’archivio un particolare intrigante che poteva rivelarsi utile alle indagini sul Mostro: in passato la donna aveva lavorato come magazziniera nella stessa fabbrichetta di porte per docce dove anche la seconda vittima aveva prestato servizio e, suppergiù, negli stessi anni. Ciò poteva indurre a considerare con più attenzione la pista politica, pur senza trascurare quelle del gruppetto demoniaco e del serial killer psicopatico.

Nel caso che l’assassino fosse stato un serial killer, presentava interesse, secondo criminologi e psicologi sociali consiglieri della Questura, il fatto ch’egli non avesse mai contattato né i media né la Polizia, a differenza di quegli assassini seriali che amavano mettersi in mostra con messaggi, sfidando la società, come l’archetipo di tutti i serial killer, il famigerato autore londinese di almeno cinque delitti, attuati dal 31 agosto all’8 novembre 1888, che aveva spedito alla stampa tre lettere, presunte autentiche, nella prima delle quali s’era firmato Jack lo squartatore, come sarebbe stato poi chiamato dai giornali e come sarebbe rimasto negli annali della criminologia, e che in tutte e tre le missive aveva fornito presunti indizi deridendo Scotland Yard. Nel caso del Mostro dell’Orecchio, l’assenza di messaggi, postali, telefonici o per posta elettronica, aveva portato i periti psichiatrici ad abbozzare, sia pure con riserva, alcuni lineamenti del suo carattere: egli, o ella se si trattava d’una donna, verosimilmente soffriva nel profondo d’un complesso d’inferiorità; inoltre, doveva provare un piacere, insieme sadico e autolesionista, rispettivamente nell’incombere occultamente su Torino impaurendola con crudeltà e, nello stesso tempo, negandosi l’intima soddisfazione di svelarsi, almeno un poco, al mondo.

Per il vice questore Pumpo, diversamente, il silenzio del Mostro avvalorava l’idea del gruppuscolo demoniaco assassino per ragioni rituali e che aveva pieno interesse, come tutte le comunità sataniche, a restarsene in ombra.

Per il commissario Sordi, l’ipotesi d’un uccisore collettivo era contemplabile, perché il fatto d’essere più d’uno avrebbe favorito l’esecuzione degli omicidi, ma non doveva trattarsi obbligatoriamente di molte persone e non necessariamente d’un ambiente demoniaco; secondo lui avrebbe potuto trattarsi, diversamente, d’uno dei casi profani che i criminologi chiamavano di magister-alumnus, vale a dire d’una coppia di serial killer composta da una persona ideatrice degli omicidi e delle loro modalità di messa in opera e da un allievo apprendista ed esecutore o coesecutore.

Vittorio al momento considerava importanti tutte le congetture e, non privilegiandone nessuna, se ne restava in attesa di più rilevanti dati.

Capitolo 6

Due giorni dopo l’omicidio di Mosca Stalina Scrofagnocca, verso le 20 l’amico e io eravamo a cena assieme, come quasi tutte le settimane nel corso della nostra ormai lunga frequentazione. Si mangiava sempre nello stesso locale, un ristorante di corso Palestro non lontano dai nostri appartamenti.

Vittorio, scavalcati gli antipasti “ammazza appetito” com’egli li definiva d’accordo con me e terminato il primo piatto, ch’era quasi un fisso per lui napoletano, spaghetti ai frutti di scoglio, era venuto sul discorso del Mostro dell’Orecchio: “Evaristo mi ha detto che, a quanto sembra, nessuna vittima aveva mai lamentato, con parenti o amici, e men che mai aveva denunciato d’aver avuto minacce, in genere o, pensando alle due morte ficcate in passato nella sinistra estrema, minacce politiche in particolare. Considerando poi che le quattro uccise in casa propria, o almeno così parrebbe, avevano lasciato entrare l’omicida: potrebbe pensarsi ch’esse fossero state in preventivi rapporti con l’assassino o gli assassini”.

“Guarda che, Vittorio, per la prima vittima il Mostro si sarebbe introdotto dal giardino attraverso una finestra”.

“Lo so che c’è codesta ipotesi, ma essa non può farci escludere affatto che l’omicida sia stato invece ammesso in casa dalla vittima. È certo soltanto che nessuna porta d’ingresso è risultata forzata in alcun caso”.

“Il Mostro potrebbe aver avuto le chiavi delle abitazioni?” avevo suggerito.

“Dalle stesse vittime?”

“Mah, no, io penserei a copie false realizzate preventivamente, non so, facendosi un calco in qualche modo”.

“Mica è così facile, sai? Solo nei film riescono a prendere nascostamente impronte della chiave sulla cera e a ricavarne copie perfette. I fabbri non lavorano mica così, partono da un originale o, se la chiave non c’è, lavorano direttamente sul serramento, certe volte limitandosi a sostituire l’intera serratura. Semmai, penserei a un grimaldello, che può aprire facilmente una porta se c’è solo il mezzo giro, a parte che oggigiorno la gente, di norma, chiude a più non posso, anche se in quel momento si trova dentro: a destra, a sinistra, sopra e sotto” – aveva fatto più volte il gesto di girare in un’immaginaria toppa un’altrettanto inesistente chiave – “e penso che il mezzo giro che hanno poi trovato entrando i parenti e, per la Scrofagnocca, la Polizia fosse la ovvia conseguenza del fatto che l’assassino, ogni volta, s’era tirato dietro la porta scappando, non che ci fosse già stato il semplice scatto quand’era arrivato, se non nel primo caso, dato che la domestica aveva dichiarato a Evaristo d’aver lasciato lei, uscendo, il mezzo giro come d’abitudine: immagino che la povera signora Tron si sentisse sicura grazie al muro di cinta della villetta e, d’altra parte, lei o la domestica avevano aperto le finestre al piano terra per far circolare l’aria, poiché quel giorno faceva caldo, e non avrebbe avuto senso serrare a tre mandate l’ingresso. È determinante, d’altronde, il fatto che tutte le uccise erano in casa e quindi, se l’assassino avesse armeggiato alla porta cercando d’entrare, l’avrebbero sentito. Dunque, se nel caso Capuò Tron egli può essersi ficcato in casa scavalcando recinzione e finestra, per gli altri delitti qualcuno deve avergli aperto dall’interno: immagino le vittime stesse”.

“Senti, Vittorio, anche se forse la mia idea è un po’ da telenovela, l’omicida non avrebbe potuto essere l’amante di ciascuna delle quattro donne e, quindi, ognuna di esse averlo ammesso in casa senza sospetti?”

“Amante di tutte? Idea un po’ eccessiva, effettivamente, anche se non da escludere al cento per cento. Però, che dire di quell’anziano barbone pulcioso ed etilista? Anche lui amante del Mostro?”.

“Oh, se è per questo, ci sono tali e tanti gusti sessuali ributtanti, Vittorio! Pensa a chi va addirittura con una bestia, il che mi sembra anche peggio dell’accoppiarsi con un vecchio ubriacone pulcioso”.

“Già; e detta per inciso, non mi sento d’escludere che vengano ammessi malauguratamente in futuro anche matrimoni con un animale o, che so, che siano legalizzate altre depravazioni come il sesso pedofilo: ormai sono tanti i politici privi della morale naturale, gente immersa nel pensiero debole3 che si preoccupa solo di seguire il mutevole sentire dei propri potenziali elettori; ma tralasciando le preoccupazioni moralistiche, torniamo al caso del Mostro: se l’assassino è sempre lo stesso per tutti e cinque gli ammazzati, possiamo supporre che tanto il clochard che le quattro donne l’avessero conosciuto dapprima: senza però bisogno d’esserne stati gli amanti! Nondimeno, il Cipolla potrebbe essere stato ucciso non dal Mostro da quel serial killer, ma da un ammiratore-imitatore del medesimo, oppure da un nemico personale che voleva depistare le indagini usando il metodo del Mostro”.

“D’accordo, Vittorio”.

“Non è comunque improbabile che il serial killer conoscesse almeno tre delle uccise e che le stesse gli avessero aperto la porta, e inoltre c’è un’altra cosa: ho il sospetto che i morti si fossero tutti conosciuti l’un l’altro, in passato, e anzi in due casi, secondo una confidenza di Evaristo, è quasi sicuramente così: domattina verificherò, di persona qualcosa al riguardo e, se andrò a segno, ti riferirò, anche per il tuo giornale, mentre se sarà un fiasco, nossignore”.

Qui aveva affrontato il secondo piatto, portato già da un paio di minuti da una gentil signora, funghi autunnali e fiori di zucchine impanati e fritti, non proprio il massimo al fine d’una buona digestione, soprattutto per uno stomaco ultra ottantenne come il suo.

La mattina dopo, in ottima salute, Vittorio era andato all’Anagrafe, chiedendo d’un dirigente che conosceva perché, come lui stesso, era parrocchiano di Santa Barbara.

Sapendolo questore emerito, trascurando la legge sulla privacy il conoscente gli aveva messo a disposizione un archivista e, col suo aiuto, l’amico aveva saputo quali fossero state le professioni delle cinque vittime, secondo le loro vecchie carte d’identità. Aveva scoperto, via, via, che anche la Capuò Tron, la Piccozza Ferini e il Cipolla, per molto tempo, avevano svolto il lavoro di magazziniere. Restava da vedere dove: anch’essi nella stessa fabbrichetta di porte per docce?

Nel pomeriggio Vittorio aveva avvisato telefonicamente il commissario Sordi della coincidenza, suggerendogli d’indagare negli archivi dell’Ufficio di Collocamento torinese per scoprire in quali ditte quei tre fossero stati magazzinieri: “Mi chiedo, Evaristo, se fossero stati occupati nella stessa azienda dove avevano lavorato la Peritti e la Scrofagnocca”.

Aveva informato anche me, come s’era d’accordo nel caso di sviluppi. perché riferissi a Carla e questa ne ricavasse un articolo.

Era stato pubblicato la mattina seguente, in prima pagina. Su richiesta di Vittorio, l’autrice s’era attribuito il merito della scoperta presso l’Anagrafe, ché il mio amico non aveva voluto figurare sui media; m’aveva detto al telefono: “Non è tanto per modestia che non voglio essere nominato, ma per buona prudenza, perché mica voglio trovarmi in casa il mostro a bucarmi il cranio col punteruolo, alla mia veneranda età”. Dal tono l’avevo indovinato sorridente.